COSI' L'8 SETTEMBRE 1943 CAMBIO' LA VENEZIA GIULIA

CONVEGNO

A Isola d’Istria (Slovenia) il 28 e 29 novembre una ventina di studiosi provenienti da Italia, Slovenia e Croazia hanno messo a confronto le risultanze dei loro studi in un densissimo convegno scientifico internazionale dal titolo 8 settembre 1943: i giorni che cambiarono la Venezia Giulia. Lo hanno promosso la Società di Studi Storici e Geografici di Pirano, la locale Comunità degli Italiani “Giuseppe Tartini”, il Centro italiano di promozione, cultura, formazione e sviluppo “Carlo Combi” di Capodistria, l’Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata (IRCI) di Trieste e la Comunità Autogestita della Nazionalità Italiana (CAN) di Isola, con il patrocinio scientifico del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno, dell’IRCI e dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli Venezia Giulia (IRSML-FVG).


I lavori si sono articolati in sessioni tematiche, al termine di ognuna delle quali ha avuto luogo un pacato e proficuo dibattito storiografico secondo lo spirito europeo. Tutti i relatori hanno concordato sul fatto che l’8 settembre fu una data di cesura della storia giuliana, che da allora prese tutt’altra piega.


Visto il gran numero, la corposità e lo spessore delle relazioni, ne sintetizzeremo qui le prime rinviando le altre a gennaio.


Raoul Pupo (Trieste) ha rilevato come l’armistizio segnasse la scomparsa politico-diplomatica dell’Italia, che ridivenne un’espressione geografica, un teatro di battaglia di potenze straniere, non più soggetto internazionale ma oggetto. Con l’autunno 1943 si compì il processo di risucchio della Venezia Giulia nel “fronte orientale europeo” iniziato nel 1941 con l’invasione di Jugoslavia e URSS. Vi furono importate le stesse logiche di violenza radicale, sterminio e trasferimenti forzati di popoli: da un lato le foibe, estensione della prassi di eliminazione dei “nemici del popolo” applicata dai titoisti in Jugoslavia; dall’altro l’aggressività nazista, con l’offensiva del settembre-ottobre, che provocò perdite ancora maggiori fra i civili, la Risiera e l’insediamento in Friuli di cosacchi. Nel settembre ’43 gli unilaterali decreti di annessione alla Slovenia e/o alla Croazia nella Jugoslavia ebbero un valore politico: il potere partigiano, dichiarando illegali le autorità italiane, considerò da allora in poi criminale l’obbedienza a queste ultime. L’obiettivo era fare della futura Jugoslavia comunista una potenza regionale egemone nei Balcani e nel Mediterraneo orientale, avamposto del comunismo mondiale verso Occidente. Una Trieste jugoslava sarebbe stata una Trieste sovietica.

La Zona di Operazioni Litorale Adriatico ebbe asseritamente solo finalità militari, ma in realtà compromise la sovranità della RSI assoggettando i repubblichini e preparando il distacco dal nesso statuale italiano. Gli anglo-americani mirarono ad assumere il controllo delle vie di comunicazione fra l’Adriatico e l’Europa centrale, senza entrare in conflitto con l’alleato jugoslavo. Il debolissimo Regno del Sud cercò invano sia di ottenere l’occupazione anglo-americana della Venezia Giulia, sia di raggiungere accordi con settori della RSI per una difesa comune della Venezia Giulia. Il CLN Alta Italia tentò inutilmente di ottenere dal movimento di liberazione jugoslavo il rinvio al dopoguerra della discussione sui confini. Il PCI riuscì a mantenere la propria autonomia dai partiti comunisti sloveno e croato solo a Trieste fino all’estate ’44; in Istria neppure ci provò seriamente, considerandola ormai perduta. Togliatti rispose “ni” all’annessione, non potendosi opporre a Stalin e Tito. Il CLN di Trieste, dall’autunno ’44 senza i comunisti, preparò l’insurrezione del 30 aprile 1945 per far trovare agli anglo-americani la città in mano italiana.


Gorazd Bajc (Capodistria) ha illustrato il punto di vista britannico e americano sulla Venezia Giulia prima e dopo la capitolazione italiana valendosi di documenti dei rispettivi servizi segreti. Quelli di Sua Maestà (lo Special Operations Executive e il Military Intelligence 6 - MI6) erano molto più sviluppati nel settore balcanico e condizionavano i “cugini” dell’Office of Strategic Services. L’MI6 prima dell’8 settembre contattò il generale Gastone Gambara, comandante dell’XI Corpo d’armata italiano a Lubiana, per un accordo di collaborazione contro i tedeschi. Gambara rifiutò quando seppe che gli anglo-americani avrebbero offerto quale aiuto solo l’aviazione.


Roberto Spazzali (Trieste) ha rammentato che fra il 14 luglio e il 4 agosto 1943 la Venezia Giulia, la Provincia di Lubiana la Dalmazia furono sottoposte alle autorità militari, che soppiantarono quelle civili. L’invasione dell’Italia avvenne prima da Tarvisio e Lubiana e solo poi anche dal Brennero, perché il comando supremo italiano aveva predisposto un settore difensivo robusto nelle valli dell’Adige sguarnendo la Provincia di Lubiana. Il 6 agosto i tedeschi ottennero di poter far passare le loro truppe su convogli ferroviari tramite Tarvisio, Piedicolle e Lubiana verso l’Italia centrale. Il generale Rommel inviò unità lungo tutto il confine italiano camuffandole e facendole cambiare spesso di posizione per indurre gli italiani a credere che fossero molto più numerose. Il comando italiano ci cascò. Soldati tedeschi cominciarono a infiltrarsi nella Venezia Giulia e ad Abbazia requisirono alcuni alberghi trasformandoli in ospedali militari. A Trieste un segretario consolare cominciò a comprare appartamenti e magazzini portuali per l’insediamento di truppe e ufficiali. Nel palazzo delle Poste fu insediata una linea telefonica diretta Trieste-Berlino. Il generale Alberto Ferrero, comandante del XXIII corpo d’armata, lasciò fare. Il 26 agosto i generali Gastone Gambara e Mario Robotti accettarono la richiesta del generale Raapke di controllare la viabilità in territorio italiano e Gambara ordinò di interrompere le attività di apprestamento difensivo, consegnandogli le chiavi del portone d’ingresso orientale dell’Italia. Lo stesso giorno la 71a divisione di fanteria tedesca entrò nella provincia di Lubiana con un pretesto. Il 27 agosto tre gruppi di combattimenti tedeschi erano già a Pontebba, Santa Lucia di Tolmino, Prevallo e San Pietro del Carso con le armi puntate contro i contingenti italiani. Il 31 agosto Ferrero autorizzò Raapke a passare per il porto di Trieste. Il Promemoria 1 del comando supremo italiano paventava un’insurrezione sudtirolese in Alto Adige, ma non slovena e croata nella Venezia Giulia, dove il XXIII corpo d’armata disponeva di 55.000 uomini, anche se non particolarmente efficienti, e il comando difesa territoriale di altri 10.000: in tutto 65.000. Il 2 settembre il gruppo tattico Sforzesca si ritirò, facendo perdere alle truppe italiane il vantaggio tattico nella regione, e 200 tedeschi raggiunsero Opicina occupando il poligono di tiro. Ad Amaro si verificò un primo scontro a fuoco fra tedeschi e alpini. Il 5 settembre l’VIII armata italiana ordinò la difesa di Trieste senza l’uso delle armi. Il 6 settembre i tedeschi erano già profondamente infiltrati in tutta la regione fra le unità italiane frazionate, divise e in spostamento continuo. Ciò ne favorì lo sbandamento e la cattura da parte tedesca dopo l’8 settembre. Dei tre diversi piani difensivi italiani nessuno venne applicato. Gambara, richiamato a Roma, arrivò a Fiume dopo l’annuncio dell’armistizio, mentre Robotti si trasferì a Lussinpiccolo. Il 9 settembre Ferrero abbandonò Trieste, subito occupata dai tedeschi, spostando il suo comando a Cervignano e poi a San Donà di Piave. La V armata avrebbe dovuto essere spedita dalla Dalmazia a Venezia e da lì a difendere il Piave. I tedeschi puntarono prima su Gorizia, poi su Pola e Fiume. Le forze italiane si misero a loro disposizione, ma ebbero luogo episodi di resistenza in Friuli, nelle valli dell’Isonzo e del Vipacco e sul Carso.


Durante la discussione Paolo Radivo, direttore de “L’Arena di Pola”, ha reso noto all’uditorioil fulgido episodio della resistenza ai tedeschi opposta il 12 settembre ’43 a Pola dai finanzieri e marinai italiani di stanza nell’allora caserma oggi nota come «Rojc», malgrado la capitolazione firmata la sera precedente dall’ammiraglio Strazzeri. Spazzali ha confermato l’attendibilità della testimonianza alla base di tale evento, rilevando l’assurdità della resa di 30.000 militari italiani a 160 marinai tedeschi e aggiungendo che le truppe tedesche giunte da Trieste per prendere in consegna Pola proseguirono, salvo un piccolo nucleo rimaste in città, verso Fiume venendo ostacolate presso Albona da un nucleo partigiano.


L’esule piranese Mario Bonifacio (Venezia) ha rilevato come nella primavera 1943 tre divisioni superstiti della ritirata di Russia avessero preso stanza nella Venezia Giulia, dove cominciarono a diffondere l’odio anti-tedesco raccontando i maltrattamenti subiti dal preteso alleato. A Pirano nell’estate ’43 le condizioni vita erano precarie a causa delle ristrettezze belliche. I marittimi, rimasti senza lavoro, erano il ceto maggioritario. Contrari alla guerra, già il 27 luglio furono alla testa di una manifestazione antifascista e pacifista e l’8 settembre inneggiarono come tanti loro concittadini all’armistizio pensando che avrebbe significato la fine della guerra. In precedenza circa 120 soldati tedeschi, ufficialmente «in convalescenza» ma in realtà perfettamente sani e armati, avevano preso possesso a Portorose di due alberghi. La mattina del 9 settembre la popolazione reagì con rabbia e sconcerto alle cannonate tedesche che si sentivano da Trieste contro le navi italiani in uscita dal porto. Alcuni antifascisti formarono un Comitato di salute pubblica composto anche da tre marittimi. Verso le 14 il battello “Eneo”, fuggito da Trieste carico di rifornimenti alimentari per la II armata in Dalmazia, attraccò al molo. I marittimi lo svuotarono e affondarono per sottrarlo ai tedeschi. Inoltre, armando delle barche, portarono in città zucchero prelevato da un veliero e grano prodotto nelle stanzie di Salvore. Il Comitato distribuì il cibo alla popolazione.

A Isola il 9 settembre la folla assaltò la fabbrica di pesce in scatola “Arrigoni” per non lasciare nulla ai tedeschi, ma il locale Comitato di salute pubblica convinse gli assaltatori a restituire l’olio asportato, in modo da far riprendere la produzione. La mattina del 10 settembre i militari italiani della Difesa Costiera e i 40 allievi avieri di Marina dell’idroscalo, senza esperienza bellica, crearono a Portorose due piccoli posti di blocco per contrastare i tedeschi asserragliati nei due alberghi. Già la sera però gli allievi si alzarono in volo con i loro ufficiali verso l’altra sponda adriatica. Vennero incendiati gli idrovolanti rimasti in loco e la popolazione saccheggiò l’idroscalo. I tedeschi crearono un cordone per isolare la penisola piranese, ma fecero solo due puntate in città e lasciarono affluire a Pirano, Isola e Capodistria i tanti militari italiani appiedati provenienti dalla Croazia. Le donne diedero loro cibo e abiti civili, mentre i pescatori li traghettarono verso Grado o le coste venete. Il piranese Tino Berti, ex ufficiale italiano poi deportato in Germania, definì l’assemblea partigiana di Pisino del 25 settembre (cui presenziò) una «manifestazione di sciovinismo, non di antifascismo» poiché ignorava la volontà e il diritto all’autodecisione degli italiani d’Istria. A fine mese alcuni contadini insorti dell’entroterra istriano, senza preparazione militare, occuparono per poco Capodistria e Isola facendo fallire il 29 settembre lo sbarco di una motozattera tedesca.


«La capitolazione in Istria – ha dichiarato Mario Mikolic (Pola) – fu vissuta con euforia dai croati che, senza aiuti politici e militari esterni, guidati da comandanti locali, disarmarono militari e carabinieri lasciati senza ordini. L’obiettivo era vincere il fascismo e porre termine all’amministrazione italiana. Molte furono le improvvisazioni perché mancava sia un comando che un programma chiaro. Tantissimi insorti, spesso contadini semi-analfabeti, diedero la caccia ai fascisti. Ne conseguirono molti omicidi soprattutto di italiani innocenti, senza processo. Ma non si può parlare di pulizia etnica. Dal 23 settembre i pochi esponenti politici istriani, fra i quali alcuni membri del Partito Comunista Croato, tutti rientrati dall’esilio, fecero molti sforzi per riportare l’ordine formando i comitati popolari, i comandi locali e i tribunali. Alcuni prigionieri furono liberati o lasciati fuggire. Il proclama di Pisino del 13 settembre non lo si poteva accettare perché era esclusivamente croato e ignorava gli italiani. Così il 25 settembre si cercò di correggerlo. Dopo che in ottobre gli insorti furono sbaragliati dai tedeschi, appena all’inizio del 1944 cominciarono ad affluire in Istria dirigenti partigiani da oltre il confine di Rapallo».
Nella discussione Radivo ha osservato che la maggior parte degli infoibamenti avvenne tra la fine di settembre e i primi di ottobre, ovvero dopo l’arrivo dei primi capi partigiani dalla Croazia. Inoltre le decisioni del 25 settembre prevedevano l’espulsione dei regnicoli e la riduzione degli italiani autoctoni a minoranza negando loro il diritto a decidere di se stessi.


Salvator Zitko (Capodistria) ha ricordato che reparti sloveni oltrepassarono il confine di Rapallo dopo l’8 settembre e che il comando partigiano croato di Pinguente giunse a Capodistria per liberare i detenuti dalle carceri. Nevenka Troha (Lubiana) ha confermato che subito dopo l’armistizio nuclei partigiani sloveni arrivarono da oltre il vecchio confine.
Samo Kristen (Lubiana) ha spiegato che la Gran Bretagna nel marzo 1941 offrì alla monarchia jugoslava, per precludere il suo ingresso nel Patto Tripartito, il sostegno a rettificare il confine con l’Italia in caso di vittoria congiunta sulle forse dell’Asse. Il 17 giugno ’41 in un discorso radiofonico alla BBC il capo del Governo jugoslavo in esilio a Londra Dušan Šimović chiese «l’Istria, Trieste, Gorizia, Zara e tutti i rimanenti territori jugoslavi», provocando la protesta degli influenti circoli di fuoriusciti italiani. Il presidente americano Roosevelt in una lettera a Churchill del 14 luglio ’41 gli chiese di smentire che il Governo britannico avrebbe offerto Trieste alla Jugoslavia. Il ministro degli Esteri britannico Eden confermò le sue assicurazioni all’ambasciatore jugoslavo, ma sostenendo che non costituivano un patto segreto. Il Governo jugoslavo in esilio continuò fino all’armistizio le sue pressioni sul Governo britannico affinché non firmasse con l’Italia una pace separata irrispettosa degli interessi jugoslavi.


Kristjan Knez (Pirano-Capodistria) ha rammentato come il programma della Slovenia unita, abbracciante tutti gli sloveni, risalga al 1848. Non poté avverarsi perché sempre osteggiato dal Governo asburgico. Nel 1920, con un plebiscito, la Carinzia rivendicata dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni rimase all’Austria, mentre l’Italia ottenne Gorizia e Trieste con i rispettivi circondari includendo un’ampia porzione di territori compattamente sloveni. Nell’aprile 1941 la Banovina della Drava, appartenente al dissolto Regno di Jugoslavia, venne suddivisa fra Germania, Italia e Ungheria. Il Fronte Antimperialista (poi Fronte di Liberazione - OF) si pose come obiettivo la lotta contro gli occupatori, la liberazione e l’unificazione di tutti gli sloveni, compresi quelli recisi dal corpo centrale dopo la Grande Guerra. Alla fine dell’anno fu istituita una commissione scientifica con il compito di studiare dal punto di vista geografico, storico, etnografico ed economico soluzioni per i possibili futuri confini. Come ribadì poi Kardelj nel dicembre 1942, Trieste, Gorizia e Klagenfurt erano gli obiettivi principali. Le comunità allogene sarebbero state incorporate, perché il concetto guida era quello del territorio etnico, ovvero la città apparteneva alla campagna. Trieste avrebbe dovuto avere uno status particolare, mentre Capodistria, Isola e Pirano no. Nel 1942 i combattimenti tra esercito italiano e OF si estesero anche alla Venezia Giulia continentale. Tra gli informatori dell’OF c’era anche la moglie slovena del generale Riccardo Bignami, che frequentava gli alti comandi romani e trasmetteva le informazioni raccolte. Il crollo militare e istituzionale italiano, che non sorprese l’OF, rappresentò l’occasione per avverare il vecchio sogno poggiante sulle elaborazioni etnocentriche del secolo precedente. Il 16 settembre 1943 l’OF durante la sua seduta plenaria decise di annettere l’intero “Litorale” alla Slovenia riunita nella nuova Jugoslavia. (continua)
Paolo Radivo

1943: i giorni che sconvolsero la Venezia Giulia


Ha avuto luogo a Isola il 28 e 29 novembre 2013 un intenso convegno scientifico internazionale sul tema 8 settembre 1943: i giorni che cambiarono la Venezia Giulia. Nel numero precedente abbiamo riassunto la parte iniziale della prima giornata. Ora proseguiamo con la parte finale della stessa.


La connazionale Erika Sporcic (Scuola Media Superiore Italiana, Buie) ha rilevato come il movimento indipendentista croato prese corpo dopo il colpo di stato di re Alessandro, che il 6 gennaio 1929 istituì una dittatura personale trasformando il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni in Regno di Jugoslavia e centralizzandolo ulteriormente. Allora i dirigenti del Partito Croato del Diritto ripararono in Italia, Germania, Austria, Ungheria, Belgio, USA e Argentina. Con il nome di ustascia (insorti) organizzarono un movimento rivoluzionario volto a far sorgere tramite la lotta armata una Croazia indipendente, militarista, autoritaria e cattolica. Mussolini li protesse offrendo loro anche campi di addestramento. Dopo l’assassinio di re Alessandro a Marsiglia per mano ustascia nel 1934, la Francia pretese da Mussolini l’espulsione dei suoi protetti, ma egli si limitò a confinarli sull’isola di Lipari. A guidare questo nucleo di 480-550 fuoriusciti era Ante Pavelić, che il 10 aprile 1941 proclamò sulle ceneri del Regno di Jugoslavia lo Stato Indipendente Croato, satellite di Italia e Germania. Lo Stato ustascia subì sempre più l’influsso tedesco e dopo l’8 settembre si basò esclusivamente sul loro appoggio.
Lorenzo Salimbeni (Lega Nazionale, Trieste) ha parlato della maldestra gestione del Governatorato di Dalmazia, istituito nell’aprile 1941 con le Province di Zara, Spalato e Cattaro e sciolto il 7 agosto 1943. Ci furono sovrapposizioni di competenze e progettualità contrastanti fra militari, gerarchi e civili, incapaci di sradicare la guerriglia titoista. L’8 settembre le truppe italiane, pur in maggioranza numerica ma divise in due catene di comando, si trovarono allo sbando fra reparti tedeschi, già in possesso di porti, aeroporti e punti strategici, e partigiani. Nelle Bocche di Cattaro la divisione Emilia fronteggiò insieme ai cetnici i tedeschi fino al 16 settembre, quando il generale Ugo Buttà scappò via mare in Italia con altri ufficiali superiori, mentre i subordinati o si arresero, o si unirono ai tedeschi, o si diedero alla macchia.
Nel Montenegro interno le unità italiane si organizzarono contro i tedeschi o passarono alla lotta partigiana.
Il 10 settembre le avanguardie tedesche entrarono a Zara, che divenne un’enclave della RSI con crescente presenza tedesca. Alcuni italiani combatterono con i tedeschi o gli slavi anti-comunisti, altri con i partigiani. Ancora il 10 settembre i partigiani presero il controllo di Sebenico, ma poi si sfilarono.
L’11 settembre le truppe tedesche e croato-ustascia circondarono Ragusa e ottennero un accordo per il disarmo delle truppe italiane, che il 12 avviarono all’internamento nei lager.
A Spalato, dopo trattative anche con i cetnici, l’11 settembre le truppe italiane consegnarono le armi ai partigiani, che uccisero 106 persone fra italiani, cetnici e simpatizzanti ustascia. A Clissa italiani e tedeschi resistettero per quasi due settimane ai partigiani, cui si erano aggiunti militari italiani. Il 27 settembre i tedeschi occuparono Spalato e fucilarono 46 ufficiali italiani, mentre gli ustascia scatenarono la repressione contro gli italiani e scalpellarono i leoni veneziani.
Ad Arbe i prigionieri del campo (tra cui diversi anziani ebrei) presero il controllo dell’isola aggregandosi ai partigiani. I pochi rimasti furono poi sterminati dai nazisti.
Hitler consentì a Pavelić, che aveva denunciato tutti i trattati con l’Italia, di annettersi la bramata Dalmazia salvo Zara, ma stroncò sul nascere le sue velleità di occupazione dell’Istria, volendo gestire direttamente il Litorale Adriatico.


«Dall’aprile 1941 – ha rilevato Nevenka Troha (Istituto di Storia Contemporanea, Lubiana) – il movimento di liberazione sloveno organizzò la resistenza anche nei territori “sottratti alla Slovenia nella passata guerra imperialista”. Nell’agosto 1941 Oskar Kovačić, membro del Comitato centrale del Partito Comunista Sloveno, giunse nella Venezia Giulia. In autunno arrivarono i primi sette partigiani. La formazione delle organizzazioni del PCS sul territorio dello Stato italiano fu approvata nell’agosto 1942, su richiesta di Tito, dal Comintern, che pretese altresì lo sviluppo del movimento partigiano assieme agli italiani. Dal luglio 1941 Palmiro Togliatti da Radio Mosca incitava a stringere un patto d’alleanza tra il popolo italiano e quello sloveno. Nel marzo 1942 invece invitò gli italiani ad unirsi ai partigiani jugoslavi. Nel gennaio 1942 Umberto Massola, a nome del PCI, pubblicò il Manifesto del PCI per il diritto all’autodeterminazione e alla riunificazione del popolo sloveno. Contemporaneamente tra i due partiti vi furono tensioni relative non solo alla questione territoriale, ma anche alla condotta del PCS, che, avendo una forza maggiore, trattava subordinatamente i compagni italiani. Questi, come aveva scritto Kardelj nel maggio 1942, con il rafforzamento del movimento partigiano nella Venezia Giulia avrebbero dovuto contribuire ad estendere la rivoluzione. Nel gennaio 1943 la direzione del PCS strinse a Trieste un accordo con Vincenzo Marcon-Davilla in cui tracciava una linea di separazione tra l’attività del PCS e del PCI in città e su quella base furono costituite le organizzazioni comuni Unità Operaia. Della richiesta pubblica di includere Trieste entro la futura Slovenia libera e riunita nella Jugoslavia libera e democratica, avanzata dal Comitato esecutivo del Fronte di Liberazione, il 20 agosto 1943 fu informato Umberto Massola. Questi non concordava con l’annessione della Venezia Giulia, compresa Trieste, alla Slovenia, come scrisse nella lettera del 6 ottobre 1943, e ripeté le posizioni del PCI, vale a dire il riconoscimento dei diritti fondamentali degli sloveni all’autodecisione e alla secessione nonché la contrarietà alla richiesta di zone particolari».


«Dopo l’8 settembre al confine orientale – ha dichiarato Ezio Giuricin (Centro di Ricerche Storiche di Rovigno) – almeno in una prima fase si manifestarono, dando vita a difficili rapporti di collaborazione, sovrapponendosi ed a tratti confrontandosi, due diverse Resistenze: quella italiana e quella jugoslava (croata o slovena). Si trattò di due concetti diversi di lotta di liberazione: nazionale e sociale per i croati e gli sloveni; sociale, diretta prevalentemente a scacciare l’occupatore ed a lavare l’onta della repressione nazi-fascista, per gli italiani. La Resistenza jugoslava era monopolizzata dal Partito Comunista Jugoslavo attraverso le strutture del Movimento Popolare di Liberazione in un contesto caratterizzato da un disegno rivoluzionario di radicale sovvertimento sociale e nazionale del territorio polarizzato da un chiaro progetto di annessione territoriale. La Resistenza italiana, almeno nelle fasi immediatamente successive alla caduta del fascismo e all’armistizio, tentava invece di seguire lo schema – ampiamente collaudato in tutta l’Italia settentrionale – della collaborazione fra le forze antifasciste democratiche nell’ambito dei CLN o dei Comitati di salute pubblica. Diverse erano anche le concezioni dei comunisti: per quelli croati e sloveni il disegno rivoluzionario risultava subordinato a quello di liberazione e di espansione nazionale. I comunisti italiani invece erano legati a una visione internazionalista in cui l’obiettivo della costruzione di una “società più giusta” prevaleva su ogni considerazione nazionale. Ben presto, a causa dell’isolamento delle strutture resistenziali italiane dell’Alta Italia, della dissoluzione delle istituzioni e del disordine seguiti al crollo del fascismo e alla capitolazione dell’esercito italiano, e con l’espansione e il graduale affermarsi del ruolo egemonico del MPL jugoslavo, gli antifascisti italiani persero gradualmente ogni autonomia e soggettività, vedendosi costretti a confluire negli organici e a sottostare alle direttive croate e slovene. La tesi iniziale dei comunisti e in generale degli antifascisti italiani secondo cui la soluzione del problema dei confini doveva essere rinviata al dopoguerra venne abbandonata in seguito all’evolversi degli eventi, in un contesto contrassegnato dal graduale rafforzarsi delle posizioni jugoslave».


«Dal 25 luglio all’8 settembre – ha aggiunto Giuricin – vennero gradualmente liberati i prigionieri antifascisti giuliani, che raggiunsero le rispettive località. Subito dopo l’armistizio a Pola si formò Comitato nazionale antifascista italiano guidato tra gli altri dal comunista Edoardo Dorigo e dall’ex deputato social-riformista Antonio De Berti, che il 9 settembre promossero uno sciopero generale e un comizio subito respinto dalle truppe badogliane con 3 morti e 16 feriti. A Rovigno un numeroso gruppo di antifascisti guidati dal comunista Pino Budicin organizzò un comizio e un corteo per le vie della città con la bandiera italiana; anche loro vennero dispersi da militari e Carabinieri senza però incidenti. In molte località dell’Istria sorsero Comitati di salute pubblica, espressione delle forze politiche antifasciste e di ciò che rimaneva dell’amministrazione italiana, per autoregolamentare il territorio evitando il caos totale. Fra l’8 e il 15-20 settembre ci fu un’insurrezione quasi spontanea, promossa, gestita e controllata prevalentemente da elementi antifascisti locali italiani, croati o sloveni. Ma quasi subito prevalsero le strutture organizzative del MPL croato. Nella seconda metà di settembre cominciarono ad affluire dai territori liberati della Croazia numerose unità partigiane non originarie del luogo con dirigenti e commissari politici, tra cui molti istriani croati fuoriusciti durante il fascismo. Il 24 settembre si costituì a Pisino il comando operativo partigiano dell’Istria, che formò subito un tribunale militare. Nel frattempo in molte località, a seguito della sollevazione spontanea, si erano verificati arresti di individui considerati collaborazionisti del regime fascista, anche se non tutti lo erano, facendo semplicemente parte dell’amministrazione italiana od essendo ostili all’annessione. Dal 22 settembre si ebbe il tragico fenomeno delle foibe perché, a seguito del cambio ai vertici delle strutture partigiane, si verificò una resa dei conti con l’esecuzione sommaria di moltissimi prigionieri. Si parla di 500-700 persone. Non fu o fu solo in parte una jacquerie o una forma di giustizialismo popolare, bensì un’azione preordinata della polizia politica in nuce delle formazioni partigiane che si tradusse nell’eliminazione di quelli che sarebbero diventati testimoni scomodi davanti alla grande offensiva tedesca che dal 28 settembre mise a ferro e fuoco l’Istria uccidendo circa 2.000 persone.

Il trattamento dei prigionieri fu diverso da località a località».
«L’assoggettamento della Resistenza italiana da parte dei comunisti jugoslavi – ha continuato Giuricin – fu più rapido nell’Istria croata che dove esercitava la propria azione il Fronte di Liberazione sloveno. Gli antifascisti italiani avrebbero dovuto accettare la linea annessionistica oppure sarebbero stati espulsi dal MPL. Il 10 dicembre 1943 Pino Budicin, alla prima Conferenza regionale del PCC istriano, denunciò, accanto ad alcuni sconcertanti aspetti sciovinistici dell’azione del MPL croato, anche i metodi con i quali erano stati eliminati i fascisti o i supposti “nemici del popolo”. Nel febbraio 1944 egli morirà insieme ad Augusto Ferri per mano fascista dopo un’imboscata. Il suo posto sarà preso prima dall’albonese Aldo Negri e poi dal rovignese Aldo Rismondo, entrambi uccisi in imboscate. All’epoca risale anche la fucilazione del comunista albonese Lelio Zustovich, giustiziato dai titini perché anti-annessionista. A Trieste i nazi-fascisti eliminarono tutti i comunisti italiani che, come Luigi Frausin, portavano avanti una politica autonoma e azzerarono ben tre compagini del CLN. La nascita dell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, concepita nel luglio 1944 dai comunisti croati in vista del temuto sbarco anglo-americano sulla costa occidentale istriana, era volta ad addomesticare e controllare l’antifascismo italiano saldandolo con quello jugoslavo. A Rovigno per due volte consecutive fra il 1944 e il ’45 vennero eliminate le strutture del PCC guidate da comunisti italiani che rivendicavano una posizione autonoma, mentre i combattenti del Battaglione “Pino Budicin” furono mandati a morire nel Gorski Kotar».


«Nell’area del confine orientale – ha affermato Leonardo Raito (Università di Padova) – l’armistizio non comportò solo lo sbandamento organizzativo e morale dell’esercito, ma anche l’improvvisa scomparsa di ogni articolazione dello Stato italiano, ampliando ancor di più il carattere di cesura del momento storico. Si accelerarono i processi che si stavano delineando fin dal 1942, quando l’attività partigiana aveva trasformato quel territorio in zona di guerra. Diverse unità si fecero sopraffare da contadini croati senz’armi. Tre corpi d’armata, forti ognuno di 50.000 uomini, cedettero il passo ai circa 5.000 tedeschi in marcia dalla Slovenia. Eclatanti risultano i casi di Fiume, dove il generale Gastone Gambara al comando di 50.000 unità si arrese a un colonnello tedesco accompagnato da due motociclisti, e di Pola, dove 40.000 italiani tra soldati e marinai si arresero a un’esigua colonna tedesca. Una colonna di soldati autotrasportati diretta all’Isonzo si lasciò disarmare da un gruppo di contadini ubriachi. Ma a Monfalcone gli operai dei cantieri organizzarono la Divisione Proletaria, che insieme ai partigiani sloveni si oppose all’invasione tedesca di Gorizia riportando un centinaio di morti. Tentativi di opposizione all’avanzata tedesca si ebbero anche a Tarvisio e in Val Canale. In Istria l’insurrezione del settembre 1943 rappresenta per i croati il momento culminante della propria epopea di liberazione nazionale, mentre ha per gli italiani una valenza fortemente traumatica. Le condanne a morte e gli infoibamenti non furono violenze legate a sollevazioni contadine, ma al rapido costituirsi di un contropotere partigiano, che si giovò di quadri provenienti da oltre confine ma che fu bruscamente interrotto dalla dura occupazione tedesca. Dopo le decisioni di Jajce del 29 novembre ’43 il Consiglio Territoriale Antifascista di Liberazione della Croazia e il Fronte di Liberazione sloveno si considerarono i soli legittimi detentori del potere in Istria. Nel Litorale Adriatico il supremo commissario Friedrich Rainer cercò di far leva sulle nostalgie asburgiche. Tale strategia aveva una valenza etnica e politica anti-italiana. Nelle zone slovene fu ripristinata l’amministrazione in lingua slovena, a Lubiana venne nominato sindaco il generale Rupnik, a Fiume fu insediato un prefetto croato e a Pola un viceprefetto croato. Fu data ampia diffusione alla stampa slovena, vennero istituite trasmissioni radiofoniche in lingua slovena e riaperte scuole con lo sloveno come lingua d’istruzione. Un certo apporto collaborazionista si ebbe da parte sia italiana che slovena (i belogardisti)». (continua)
Paolo Radivo

La svolta dell’8 settembre


Concludiamo con gli interventi della seconda giornata il resoconto del convegno scientifico internazionale 8 settembre 1943: i giorni che cambiarono la Venezia Giulia, svoltosi a Isola d’Istria (Slovenia) il 28 e 29 novembre 2013.
Nel suo saluto iniziale il Console generale d’Italia a Capodistria Maria Cristina Antonelli ha ricordato come nei territori orientali d’Italia la Seconda guerra mondiale arrivò a livelli di efferatezza incredibili. Al forno crematorio di Trieste, unico in Italia, si aggiunsero le foibe, che configurarono una vera e propria pulizia etnica ai danni degli italiani.
Il presidente della Giunta esecutiva dell’Unione Italiana Maurizio Tremul ha lodato il coraggio con cui la nostra minoranza nazionale, malgrado le ristrettezze economiche, ha voluto promuovere un confronto serio, pacato e non ideologico tra storiografie diverse su «un tema molto doloroso, difficile e complesso» proprio in Istria, «dove si sono consumate le tappe di un percorso che ha portato a vicende terribili: prima il fascismo, poi l’entrata in una guerra illogica e infine una rivalsa che ha ridisegnato l’identità del territorio, rischiando quasi di cancellare la popolazione italiana con la scusa che croati e sloveni avevano patito violenze, il che è vero, ma avvenne con dinamiche un pochino diverse».


«La Resistenza slovena, orientata dal Partito Comunista della Slovenia (PCS) nell’ambito del Fronte di Liberazione (OF), si stava preparando intensamente – ha riferito Vida Dezelak Baric (Lubiana) – alla capitolazione italiana almeno dallo sbarco alleato in Sicilia. Voleva sottrarre al regio esercito il grosso delle armi e instaurare subito il proprio potere sul territorio sgomberato. Raggiunse l’obiettivo dal 9 settembre 1943, perché i militari italiani non opposero resistenza. La mobilitazione di massa degli uomini idonei alle armi determinò il rafforzamento e la diffusione capillare dell’esercito partigiano. La priorità era la Provincia di Lubiana, dove si inasprì il conflitto interno sloveno. Il PCS intraprese un’aspra lotta contro i partiti centristi. L’eliminazione delle unità cetniche e delle Guardie di Paese provocò numerose vittime esasperando la guerra civile. Nel Litorale i ceti moderati nutrivano riserve verso il PCS, ma dopo l’armistizio l’adesione aumentò. Tra i compiti specifici e strategici del PCS in quest’area vi era la conquista dei lavoratori a Trieste e negli altri centri operai».


«Con l’8 settembre – ha affermato Bojan Godesa (Lubiana) – il processo di monopolizzazione del movimento resistenziale da parte del PCS, già acceleratosi nella primavera del ’43, conobbe un ulteriore sviluppo, accompagnato dalla considerevole dilatazione dell’OF fuori dalla Provincia di Lubiana (inizialmente soprattutto nella Venezia Giulia). Gli intellettuali erano strettamente legati al ruolo svolto nella Resistenza da Lubiana, ma specie dopo i rastrellamenti italiani del dicembre ’42 la sua importanza diminuì a vantaggio della Venezia Giulia. Alla capitolazione dell’Italia non pochi intellettuali rientrarono dalle prigioni italiane, dal confino e dall’internamento. Nei territori liberati l’OF li impiegò nel suo apparato politico-amministrativo. I rapporti tra i due schieramenti sloveni antagonisti conobbero una radicalizzazione. Cominciò a prevalere il movimento partigiano, preminenza che fece poi valere anche in campo internazionale».


«Subito dopo l’8 settembre – ha dichiarato Milan Pahor (Trieste) – l’intera Venezia Giulia fu interessata da una generale insurrezione popolare. La popolazione slovena definì il lasso di tempo compreso tra la capitolazione italiana e l’inizio dell’offensiva tedesca come il periodo della “prima libertà”. A Trieste, Gorizia, Monfalcone e altrove, sotto il peso di proteste vigorose, le autorità aprirono le porte delle prigioni. L’11 settembre nella scuola di Vogrsko [Voghersca, presso Nova Gorica] sorse il Consiglio di Liberazione Nazionale per la Slovenia Litoranea, che avrebbe giocato un importante ruolo politico. Il disarmo dell’esercito italiano e il massiccio afflusso di volontari nell’OF permise la formazione di 30 nuovi battaglioni partigiani, tra cui alcuni italiani. La possente ondata insurrezionale rimosse il potere italiano, specie nel contado, e disarmò i militari italiani, che la popolazione aiutò poi a fuggire dando loro abiti civili, viveri e istruzioni per il viaggio. Si formò una larga rete di comitati locali di liberazione nazionale. L’11 settembre fu proclamata l’annessione del Litorale alla Slovenia popolare. La difesa del territorio liberato si svolgeva seguendo la tattica delle unità partigiane: attacchi di breve durata per poi ritirarsi. Un’eccezione fu il “fronte goriziano”, che costituiva la linea difensiva contro le unità tedesche (11-25 settembre). L’offensiva militare germanica verso il “territorio liberato” iniziò il 25 settembre nel Goriziano, il 30 settembre sul Carso e il 2 ottobre in Istria, dove prese il nome di “offensiva incendiaria” giacché furono bruciati decine di villaggi».


«Prima della capitolazione italiana – ha rilevato Boris Mlakar (Lubiana) – con il termine “schieramento controrivoluzionario sloveno” intendiamo anzitutto le Guardie di Paese, sorta in parte spontaneamente e in parte grazie alle autorità italiane occupanti la Provincia di Lubiana nell’ambito della Milizia Volontaria Anticomunista. Ad esse si aggiunse il debole movimento cetnico sloveno guidato da K. Novak. L’illegale Alleanza Slovena dominava le Guardie di Paese. Tutti questi soggetti erano collegati con i servizi britannici. Nell’estate ’43 la dirigenza di tale schieramento aspettava uno sbarco alleato verosimilmente nel Quarnero o in Istria, a differenza dei partigiani, dedicava minore attenzione al disarmo dell’esercito italiano e alla presa del potere. Aveva un orientamento difensivo. Il maggiore Novak poco prima della capitolazione italiana si allontanò dall’Alleanza Slovena, che ordinò alle Guardie di Paese di tramutarsi nell’Esercito Nazionale Sloveno, con cui andare incontro agli alleati. Per l’incompetenza tattica dei comandi, lo scarso armamento e gli intensi attacchi delle formazioni partigiane, che nel settembre ’43 avevano come obiettivo principale l’annientamento dell’avversario interno, le ex Guardie di Paese e quelle dei cetnici furono in parte distrutte e in parte, per timore della repressione partigiana, passarono nel Posavje o si assoggettarono ai tedeschi. Nella Venezia Giulia lo schieramento controrivoluzionario esisteva solo come debole organizzazione clandestina e non giocò alcun ruolo».


«Dopo oltre tre secoli di pace, nell’autunno 1943 – ha osservato Alessandra Argenti Tremul (Capodistria) – l’Istria ridivenne teatro di eventi bellici, oggetto del contendere, territorio da spartire. Durante il regime la Regia Prefettura di Pola aveva steso un elenco di “antifascisti”, “slavo-comunisti” e “comunisti” imprigionati in seguito a delazioni nel carcere di Capodistria. C’erano sia italiani, sia sloveni, sia croati. Nel 1941, dopo l’occupazione della Jugoslavia, la Prefettura li segnalò all’Ispettorato Speciale di Polizia della Venezia Giulia, che li internò nel Sud Italia per il pericolo che entrassero in contatto con i ribelli. Nel carcere furono rinchiusi anche avversari politici provenienti dalla Provincia di Lubiana e venne istituita una sezione femminile. I carcerati svolgevano lavori per ditte che realizzavano spazzole. Dal settembre ’43 la situazione risultò complessa per la compresenza di tre movimenti di liberazione: italiano, con i CLN e i Comitati di salute pubblica; croato, che decretò l’annessione dell’Istria alla Croazia nella Jugoslavia; e sloveno, l’OF, di cui facevano parte il PCS, i cristiano-sociali e i Sokol. Le operazioni partigiane ad opera del movimento croato iniziarono la notte fra il 31 agosto e il 1° settembre quando furono tagliati i fili del telefono e del telegrafo, con l’interruzione delle comunicazioni Pisino-Albona, Pola-Pisino, Pisino-Montona, Pola-Albona e Parenzo-Pisino. Ci si preparava dunque all’insurrezione armata. Dopo l’armistizio l’OF chiamò alla mobilitazione generale anche nel “Litorale” tutti gli uomini dai 18 ai 45 anni. Una commissione istituì un tribunale con giurisdizione su tutto il circondario di Trieste. A Capodistria si avvertì subito la presenza di partigiani comunisti slavi, “bande” slave, comunisti locali e soldati italiani, che controllavano villaggi, case isolate e strade intorno alla città. Il 26 settembre si ebbero i primi combattimenti tra partigiani e tedeschi. Il 27 i partigiani presero possesso del municipio, delle carceri e della stazione dei Carabinieri. Il 28, insieme ai comunisti locali, liberarono tutti i prigionieri, assaltarono il fondaco, la cassa di risparmio, l’ufficio postale e alcune case per requisire del cibo. Il 29 i tedeschi li cacciarono da Capodistria, che rimase bloccata: non si poteva né entrare né uscire. Fra il 30 settembre e il 1° ottobre vi furono altri combattimenti tra i partigiani sulle colline e i nazisti in città, con colpi di artiglieria. Ne rimase vittima un bambino. Il 2 ottobre ci fu a Salara il grande rastrellamento nazista in cui persero la vita alcuni agricoltori. Il 3 novembre iniziarono le lezioni. In epoca jugoslava alcuni documenti d’archivio venivano tenuti nascosti e c’erano delle limitazioni per gli storici, cui si dovevano dare le copie modificate a favore del Partito Comunista. Questo ci può far riflettere sulla necessità di istituire una commissione paritetica di storici che analizzi serenamente le carte originali».


«I comandi militari tedeschi – ha detto Giorgio Liuzzi (Trieste) – assegnano alla Venezia Giulia una funzione strategica in quanto cerniera tra i fronti italiano e balcanico e tra tutto il fronte meridionale e la Germania, nonché per il timore di uno sbarco alleato. La presenza di un movimento partigiano e di sacche libere è inammissibile: occorre un controllo totale e capillare. La 71a divisione di fanteria occupa Lubiana e con una certa difficoltà Gorizia (ma i dintorni restano in mani partigiane), Trieste (ma la strada Lubiana-Trieste è piena di blocchi di partigiani e soldati italiani), Pola (ma scontrandosi con gli insorti al bivio di Tizzano) e Fiume (dove è accerchiata dai partigiani). Il resto dell’Istria rimane ai partigiani. Il 12 settembre ’43 il comando della Wehrmacht giudica necessario il veloce trasferimento di forze di polizia e altri reparti per contrastare le “bande” e internare i reparti italiani. Il 22 i servizi di informazione del comando tedesco in Italia segnalano il consolidamento delle “bande” tramite arruolamenti sia spontanei sia forzati. Nella zona di Gorizia vi sarebbero 12.000 “banditi”, in quella di Lubiana 15-18.000, in Istria 15.000, in totale 50.000: cifre gonfiate per chiedere più aiuti e giustificare la repressione. Si vuole impedire che facciano da testa di ponte allo sbarco alleato. Sempre il 22 settembre Hitler ordina di “schiacciare con spietata durezza il movimento insurrezionale sloveno comunista in Istria”. Chi oppone resistenza va fucilato. Serve un immediato successo per trasferire poi il grosso delle unità ad altri compiti. Il 23 settembre il comando della Wehrmacht articola in tre fasi l’“Operazione Istria”, volta a pacificare e ripulire il territorio: 1) zona di Gorizia e Postumia; 2) zona a nord di Fiume; 3) Istria. Ordina di rastrellare e arrestare tutti i maschi dai 15 ai 70 anni. Solo i contadini residenti possono essere esentati. I prigionieri sloveni, serbi e croati vanno trattati come prigionieri di guerra. Ciò vale anche per i militari italiani, eccetto gli ufficiali, da fucilare subito. I comandanti delle “bande” vanno perquisiti, interrogati e poi fucilati. I prigionieri alleati vanno condotti al più vicino comando. I “banditi” sono da interrogare. Alle unità di fanteria della 71a e 40a divisione spetta creare sacche di accerchiamento, alle Waffen SS attuare i rastrellamenti. Il 24 settembre arriva l’ordine di fucilare chiunque opponga resistenza. Il 25 l’operazione parte da Gorizia con 50.000 uomini, oltre 110 panzer e 140 cannoni. Il 26 settembre si contano 250 nemici uccisi e 523 arrestati, il 27 settembre 628 uccisi e 1.240 arrestati: cifre propagandistiche. In realtà gran parte delle unità partigiane evitano l’accerchiamento e scappano. Chiusa la fallimentare operazione nel Goriziano il 29 settembre, i tedeschi sferrano l’attacco in Istria dal 2 al 10 ottobre. Il 1° ottobre il comando revoca l’ordine di internamento della popolazione maschile, in particolare slovena, che “appoggia il movimento comunista solo per il terrore scatenato dalle bande”. Ogni distruzione di paesi sloveni è vietato, a meno che la popolazione non partecipi agli scontri. Si ritiene infatti che il caos sia dovuto unicamente all’infiltrazione dei partigiani croati. L’operazione deve essere veloce e radicale, l’internamento riguardare solo i simpatizzanti del nemico e i comunisti. A stabilire in pratica chi lo è e chi no saranno i comandanti di reparto. Dal 2 al 10 ottobre si registrano ufficialmente 2.500 vittime e 2.800 arresti. Sulle perdite tedesche i dati sono insufficienti. In assenza di veri e propri scontri con i partigiani, il grosso degli uccisi sono civili, poiché i tedeschi li considerano tutti possibili simpatizzanti del nemico e poi ne giustificano l’uccisione a posteriori. L’obiettivo tedesco è non solo colpire il movimento partigiano, ma dimostrare la propria forza alla popolazione affinché tema più i tedeschi dei partigiani. Il 15 ottobre si insedia a Trieste l’amministrazione civile della Zona di Operazioni Litorale Adriatico. Inizia una nuova fase dell’occupazione tedesca, non più militare ma politica. I tedeschi non controlleranno mai capillarmente il territorio per mancanza di uomini. Fino al termine del conflitto sarà un continuo di rappresaglie e rastrellamenti».


«Nel Parentino – ha spiegato Walter Baldaš (Parenzo) – il movimento popolare di liberazione si formò presso San Lorenzo del Pasenatico, San Vitale e Monteritossa. Tra il 1941 e il ’42 alcuni comunisti arrivarono in Istria dalla Jugoslavia occupata per preparare l’insurrezione. A Caroiba si costituì un primo nucleo partigiano dotato di armi, medicinali e denaro. L’organizzazione si allargò a Lanischie, Pinguente, Pisino, Parenzo, Albona, Sanvincenti, Pola, Clana, Antignana e Rovigno, ma fino all’agosto ’43 rimase embrionale e l’esercito italiano la contrastò. Dopo l’8 settembre partì la mobilitazione volontaria. Circa mille insorti dell’entroterra si fecero consegnare Parenzo dal locale Comitato di salute pubblica, disarmarono 389 soldati italiani e sequestrarono le armi. L’8 settembre a Visignano si festeggiò la fine della guerra. L’11 settembre il parroco di San Giovanni della Cisterna chiese al podestà di mediare con i carabinieri garantendo che avrebbero avuto salva la vita se avessero consegnato le armi. Così avvenne e sul municipio di Visignano fu issata la bandiera croata con la stella a cinque punte. Lo stesso giorno gli insorti lasciarono passare, dopo averla disarmata, una colonna di soldati italiani diretta a Trieste. Poi al bivio di Tizzano attaccarono una colonna tedesca diretta a Pola. I tedeschi li uccisero tutti. Se ne salvarono solo due, mimetizzatisi sotto i cadaveri. La gente scappò nei boschi per paura. A Visinada il 9 settembre uno scampanio annunciò l’armistizio. I carabinieri furono disarmati. Il podestà Giuseppe Cossetto rinunciò alla sua carica mettendosi a disposizione delle nuove autorità, che attuarono delle vendette imprigionando alcuni illustri fascisti locali e loro familiari e portandoli nelle vicinanze di Scropetti, dove li torturano e infine li bruciarono. Una decina di persone furono uccise a Vragnasella il 26 ottobre. Tra gli insorti non c’erano solo comunisti, ma anche nazionalisti. Don Božo Milanović diceva infatti che le ideologie passano, ma i confini restano. Dopo l’8 settembre giunsero alcuni dirigenti partigiani dalla Lika, altri nel 1944 dal Gorski Kotar».


Il moderatore Kristjan Knez (Pirano) ha rammentato che nell’entroterra capodistriano tra il 2 e il 10 ottobre i tedeschi incendiarono 1.800 edifici colpendo solo civili inermi, dato che il movimento partigiano era quasi inesistente. Nel dibattito Marino Bonifacio (Venezia) ha criticato i comunisti sloveni e croati, che ripudiarono l’internazionalismo proletario e il principio di autodecisione dei popoli sancito dalla Carta Atlantica. Nevenka Troha (Lubiana) ha precisato che la guerra civile slovena si sviluppò essenzialmente nella Provincia di Lubiana. Boris Mlakar ha sostenuto che il grosso limite dello schieramento anticomunista sloveno fu di puntare tutto sullo sbarco anglo-americano. Paolo Radivo (Trieste) ha evidenziato che il 1° ottobre i partigiani si ritirarono da Parenzo in vista dell’offensiva tedesca portando con sé ad Antignana numerosi civili prigionieri, che il 5 ottobre gettarono nella foiba di Surani. Il 7 ottobre Giuseppe Cossetto fu ucciso da partigiani a Castellier. Walter Baldaš ha confermato che la figlia Norma non era politicamente attiva, non aveva colpe e venne infoibata solo perché suo padre era fascista. (fine)
Paolo Radivo


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