(Da La nuova Voce Giuliana del 16/09/13 intervista della direttrice Carmen Palazzolo Debianchi)
autobiografia di un esule da Pola, Edizioni Istria Europa, Imperia 2013,
Ultimo volume di Lino Vivoda. Lo descriverei sinteticamente come la storia di Pola del periodo 1930/46, cioè fino all'esodo, vista attraverso agli occhi di un ragazzo intelligente, vivace e soprattutto curioso, che tutto vede e sa perché su tutto si informa e poi narra anche gli avvenimenti più atroci in modo distaccato, non intriso da sentimenti, senza aggettivazioni.
Una delle cose che mi hanno colpito nel volume è stata infatti questa; un'altra me l'hanno fatta rilevare degli amici a cui parlai di Lino Vivoda e di questa sua ultima fatica aggiungendo che l'avevo visto a Pola per la celebrazione della strage di Vergarolla, nella quale aveva perso un fratello.
“Come el pol!” fu l'esclamazione di uno di essi. E' la domanda che rivolgo all'Autore.
“Come el pol!” E' sottinteso che il mio amico intendesse dire: “Come el pol tornar, nonostante il fatto che in quel luogo gli avessero ucciso un fratello” perché le persecuzioni personali o la perdita di qualche congiunto sono fra le motivazioni addotte da quelli che non tornano e non vogliono ritornare nei luoghi natii. E' una motivazione comprensibile ma lei ha scelto un'altra strada. Può descrivere ai nostri lettori l'itinerario spirituale che l'ha portato a questa scelta?
Sono partito da Pola, poco più che quindicenne, nel febbraio 1947 col "Toscana". All'inizio - dopo aver sperimentato l'accoglienza socialcomunista ad Ancona e Bologna, dove ci fu negata dai comunisti con la minaccia di sciopero generale ferroviario la possibilità di sfamare bambini e vecchi, dopo oltre dieci ore di viaggio sulla paglia di carri bestiame, e le esperienze a La Spezia, città rossa - la possibilità di contatti con quella parte politica era comprensibilmente negata. D'altra parte i democristiani non ci trattavano meglio. Con l'ordine di Scelba, ministro dell'Interno, di schedare tutti i profughi (tutti, compreso l'arcivescovo di Pola, mons. Radossi, esule a Spoleto) con foto, impronte digitali e scheda segnaletica, suscitando comprensibili rivolte nei campi profughi, che costrinsero a soprassedere a quell'odiosa e incomprensibile imposizione. Quindi, inizialmente, come la maggioranza dei profughi, guardavo con simpatia alla destra italiana: missini, monarchici e un po' meno liberali, che dimostravano di comprenderci. Poi, verso l'inizio degli anni '70, dopo un incontro con Bruno Salvadori, leader degli autonomisti valdostani, e una permanenza in Austria, dove avevo studiato la soluzione tedesca delle Euroregioni per le regioni miste di confine, mi orientai sulla soluzione del problema istriano in ambito europeo, impegnandomi con tutte le mie possibilità in questa direzione, l'unica possibile prescindendo da azioni di guerra che, avendola sperimentata, non auspicavo in nessun modo. Ciò implicava anche la frequentazione e i contatti con la minoranza degli italiani rimasti. Il che avvenne a Pola, mentre ero Sindaco del Libero Comune di Pola in Esilio, nei primi anni ’90, con la prof.ssa Olga Milotti, presidente della Comunità italiana, dopo un nostro incontro a Brescia, durante la “Rassegna giuliana” con la partecipazione di esuli e rimasti.
- Il ritornare o non ritornare nelle terre natie è uno dei motivi su cui attualmente gli ultimi esuli viventi si stanno spaccando. Secondo me è una falsa motivazione: chi lo desidera e se la sente di farlo ritorni, chi non lo desidera e non se la sente non ritorni, purché nessuna delle due parti pretenda che tutti condividano le sue scelte pena il distacco o quant'altro ci si può inventare.
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Più che giusta l'osservazione. Siamo venuti in Italia per un'ansia di libertà e democrazia. Ognuno ha il diritto di pensare come vuole. Basta non demonizzare chi la pensa diversamente. Siamo tutti fratelli d'esilio e non facciamo come i quattro polli di Renzo beccandoci tra di noi. Chi vuole vada, chi non vuole resti.
In più parti del suo libro lei narra di ex fascisti, che all'occupazione titina furono fra i primi a sparire o ad essere arrestati, interrogati, torturati, infoibati. Da anni questo è un argomento che non si può toccare pena l'accusa di giustificazionismo, eppure queste situazioni vengono descritte in ogni cronaca del tempo, anche in quella di Albona che abbiamo pubblicato in questo numero del giornale e in quello precedente.
Più che di ex fascisti si trattava di pesci piccoli con cariche governative, come maestri, messi comunali, semplici iscritti al PNF, come la maggioranza a quei tempi. I pesci grossi erano già rifugiati in Italia. Ma la gran parte degli infoibati erano semplici italiani, uomini, donne, bambini, preti ed anche antifascisti e partigiani italiani. Gente del popolo. A Gallignana, dove ero sfollato, in due notti a settembre del '43 infoibarono 44 persone lasciando il paese nel terrore della rappresaglia tedesca. Quando vennero poi i tedeschi presero 30 persone e le deportarono a Dachau da dove ritornarono in quattro, io stesso mi salvai perché riuscii a spiegarmi con due parole di tedesco che conoscevo, imparate a Pola dai sommergibilisti tedeschi a Scoglio Olivi, dove lavorava mio padre.
A proposito della situazione, oggi si usano molto i termini conciliazione e riconciliazione che, onestamente, non mi dicono nulla. Preferisco parlare di pace, educazione alla pace, purificazione dell'odio perché, a mio avviso, quello che la nostra generazione non deve assolutamente passare è un messaggio di odio perché l'odio genera odio, la violenza genera violenza, l'ha detto giorni fa anche papa Francesco. E' una maturazione che l'anziano deve aver acquisito, che deve far parte del patrimonio maturato durante una lunga vita che, se non è un itinerario di crescita costante e continua, è stata in qualche modo a mio avviso sprecata.
Personalmente non ho mai pensato a una riconciliazione, ma a riannodare i legami tra un popolo diviso da eventi bellici ed ingiusti trattati di pace ai fini di preservare la cultura, le tradizioni e la lingua italiane, che solo i rimasti potevano fare in Istria. La stessa Maria Pasquinelli, non sospetta di intese coi comunisti, quando uscii col mio giornale “Istria Europa” per dibattere temi rifiutati da tutta la stampa degli esuli, mi incoraggiò a questo fine. Ma venendo alla mia storia personale, poiché a Vergarolla avevo perso il fratello di otto anni con i santoli Mery e Francesco Toniolo, non ho mai cessato dal ricercare la verità sugli attentatori e cercare di far ricordare sempre, a fini propedeutici per le generazioni future, l'orrendo misfatto. Il secondo obiettivo l'ho ottenuto con l'aiuto di Livio Dorigo, mio amico d'infanzia a Pola, e con quello dell'allora vicesindaco italiano di Pola, Mario Quaranta, con l'erezione del cippo ricordo della strage nel giardino accanto al Duomo. La mia ricerca poi, guidata dallo scritto di Gilas, braccio destro di Tito: - "Fummo mandati da Tito in Istria io e Kardelj con la scopo di cacciare gli italiani con ogni mezzo. E così fu fatto"- fu coronata da successo quando riuscii a scoprire la confessione di un agente dell'OZNA, uno degli autori della strage, prima di impiccarsi, rendendo noto il suo nome nel mio ultimo libro. Quindi tutta la mia azione, dettata da un grande amore per l'Istria, la terra che mi ha visto nascere, mi ha consentito di superare comprensibili risentimenti. E andando avanti verso l'Europa, come avevo sperato, spero che un giorno vedremo finalmente riconosciuta l'Ingiustizia operata sulla nostre carni, causa una guerra persa da tutti, ma pagata soprattutto da noi.
Lino Vivoda