Pedena. Storia e memorie dell’antica Diocesi istriana
Libro di David Di Paoli Paulovich
Questo pregevole volume è frutto del lavoro del maestro e musicologo David Di Paoli Paulovich, che per realizzarlo ha consultato un’ampia bibliografia e compiuto ricerche nell’archivio della Diocesi di Trieste e di alcuni privati, ma anche interviste e trascrizioni di spartiti musicali. Tale sua opera si inserisce in un suo più generale progetto di recupero e rivitalizzazione di un antico patrimonio religioso e culturale legato alla musica e al canto liturgici. Ma in questo volume l’autore ha voluto aggiungere alla parte musicale elementi per la ricostruzione dell’intera storia politico-amministrativa, ecclesiastica, etnografica ed economica di quel tassello del variegato mosaico istriano che è il piccolo borgo Pedena con il suo comprensorio.
La prefazione di Lorenzo Rovis è piena di simpatici aneddoti autobiografici sulla vita agreste, spartana ma gratificante, vissuta da bambino nella campagna pedenate. Un mondo fuori dal tempo tutto incentrato sui lavori agricoli secondo il ritmo delle stagioni, senza luce elettrica e acqua corrente o macchinari meccanici.
Nell’introduzione Di Paoli Paulovich spiega la genesi e il significato del suo studio, auspicando infine la ricostituzione della soppressa Diocesi di Pedena.
Il resto del libro è suddiviso in sei capitoli.
Il secondo illustra in modo problematico la cronotassi dei vescovi dell’ultramillenaria Diocesi riportando passi di vari autori dei secoli scorsi.
Il terzo descrive il territorio e le parrocchie dell’ex Diocesi.
Il quarto tratta della lingua liturgica, delle tradizioni religiose e musicali nell’anno liturgico, del culto del patrono san Niceforo, ma anche delle orazioni, delle credenze, degli antichi usi e delle superstizioni popolari diffuse specie nei villaggi slavi del circondario, dei detti e delle filastrocche tradizionali.
Il quinto fornisce dei dati sulla realtà pedenate tra la fine dell’800 e l’immediato secondo dopoguerra.
Il sesto elenca le trascrizioni musicali, di cui offre poi i relativi spartiti.
Il prof. Argeo Benco, sindaco del Libero Comune di Pola in Esilio, bloccato a Varese dall’influenza, mi ha pregato di portare il saluto Tuo e del sodalizio agli organizzatori e ai partecipanti, nonché le congratulazioni all’autore.
Pedena sorge nell’Istria centro-orientale, circa a metà strada fra Pisino e Fianona, pochi chilometri a ovest del fiume Arsa, su una collina calcarea culminante a 385 metri in una zona rigogliosa e salubre, formata in prevalenza da fertili terreni marnoso-arenacei con acque superficiali. Sono queste le ultime propaggini meridionali dell’Istria gialla (o verde), così simile alla Toscana. Solo pochi chilometri più a sud inizia l’Istria rossa, quella calcarea, senza acque di superficie, costellata di minuscoli villaggi.
Dal borgo si godono strepitosi panorami verso le colline circostanti, i prati, i campi coltivati soprattutto a vigneti e cereali, i boschi, i pascoli, la catena dei Monti Caldiera, la Val d’Arsa con la piana di Cepich e in lontananza il mare del Quarnero con Cherso e Lussino. Tale posizione preminente su un altura a guardia del territorio circostante, la prossimità di fonti d’acqua, i terreni fertili e assolati spiegano perché fin dall’antichità vi fosse stato eretto un centro abitato. La vista è invece impedita verso Sud-Ovest da alcune cime più alte, che preludono al tavolato di natura carsica. I vari torrenti che sorgono in zona affluiscono tutti al vicino fiume Arsa.
Sul monte Calvario, situato poco più a nord dell’attuale borgo, fu eretto dopo il 1800 a.C. un castelliere oggi noto col nome di Oriz. La vetta si trova a 367 metri, dunque un po’ meno di quella del colle di Pedena. Forse era questa l’antica Petina, fondata da popolazioni di origine balcanica o egea. I Celti Secussi e poi i Romani la chiamarono Petina.
Una leggenda fa derivare l’etimologia di tale nome da pet, in quanto Pedena sarebbe stata la quinta sede episcopale istriana o addirittura la quinta in assoluto dopo Roma. Infatti sia in celtico che in slavo pet (abbastanza simile al greco penta) significa cinque. Ma l’assegnazione del nome alla località è assai precedente alla fondazione della Diocesi. Dunque Pedena potrebbe sì essere legata al numero cinque, ma non in riferimento alla Diocesi. Peraltro in celtico e nelle altre lingue antiche che recepirono tale termine pet avrebbe anche potuto avere accezioni diverse.
I Romani chiamarono l’insediamento anche Petinum, o ancora Juvavia e Pucinum, termini poi caduti in desuetudine, anche se a quest’ultimo sembrerebbe rifarsi il croato Pićan. Pucinum sembra quasi identico all’abruzzese Fucinum, dalla comune radice fuc o puc, ossia luogo melmoso con acque stagnanti. In accadico la radice inu significava sorgente, fiume o lago. Tali caratteristiche sembrano attagliarsi perfettamente al lago endoreico del Fucino, prosciugato nel XIX secolo. Analogamente Pucinum richiamerebbe la piana a Est di Pedena con il sottostante lago di Cepich, prosciugato negli anni ’30 del ’900. Anche Petinum, soprattutto per la sua desinenza, potrebbe avere un significato identico o simile, con alla base l’acqua.
Tutt’altra etimologia è invece quella dell’abitato di Petìna in provincia di Salerno, sorto attorno all’anno Mille e derivante dal latino ab(i)etina, continuato nell’italiano abetina, cioè abetaia, in dialetto campano appetina, in lucano petìna.
L’etimologia di Petina non dovrebbe c’entrare nemmeno con quella dell’attuale Padova, da Patena, Patina, Patava o Patua, che sviluppa la radice preromana ma anche latina pat nel significato di luogo esteso, aperto, pianeggiante, che non può certo riferirsi alla collinare e rocciosa Pedena.
Ignoriamo se vi fu continuità di popolamento dall’epoca del castelliere a quella romana o se in una certa fase si verificarono interruzioni con successive riprese. Sappiamo infatti che dopo l’invasione degli Istri, tra il XII e l’XI secolo a.C., molti castellieri della penisola costruiti dalle precedenti popolazioni insediatesi a partire dal 1800 a.C. furono abbandonati, mentre in altri la vita continuò dopo una fase critica, ma in modo diverso da prima. Ad ogni modo dall’XI secolo a.C. l’area pedenate rientrò nel territorio istrico, confinante per secoli con quello liburnico lungo il fiume Arsa.
All’inizio del IV secolo a.C. l’Istria settentrionale e orientale fu verosimilmente invasa da popolazioni celtiche o celtizzate. Nell’area di Pedena si insediarono i Secussi, così chiamati due secoli dopo da autori romani. Non è chiaro se costoro avessero preservato la propria lingua insieme ai propri usi e costumi o se al contrario si fossero progressivamente amalgamati con gli Istri, che rimasero invece maggioritari nell’Istria occidentale e meridionale.
Non possediamo neppure dettagli su come si svolse il lungo processo di romanizzazione a partire dal 177 a.C.. Sembra alquanto improbabile la deduzione di una Colonia romana, di cui non sussistono testimonianze. Più verosimile risulterebbe invece la progressiva formazione di un oppidum civium Romanorum, ovvero di un borgo fortificato di cittadini romani. Sta di fatto che sul sito del monte Calvario sono stati ritrovati numerosi reperti romani come lapidi e frammenti di pietre lavorate. Un’iscrizione murata tuttora visibile nell’attuale borgo ricorda Lucio Canalio della famiglia Pupinia. Pedena, trovandosi a Ovest dell’Arsa, rientrò nella Decima Regione augustea Transpadana et Histria, poi chiamata Venetia et Histria. All’epoca doveva far parte dell’ampio territorio della Colonia di Tergeste.
Intorno al 170 l’imperatore Marco Aurelio incluse l’intera Istria per necessità strategiche in una zona militare a difesa dai Barbari con capoluogo la liburnica Alvona. Fu probabilmente allora che la fascia liburnica e le isole quarnerine furono inserite nella X Regio e il confine italiano fu spostato al fiume Eneo, con l’inclusione di Tarsatica e delle isole di Cherso, Lussino e Veglia. Pedena cessò in tal modo di trovarsi al confine dell’Italia romana. In quel periodo, sempre a scopi difensivi, si fortificarono le città istriane e sorsero accampamenti militari tramutatisi poi in borghi. Dunque Pedena verosimilmente accentuò il suo carattere militare-strategico.
La sua collocazione e struttura ricordano altri borghi d’altura istriani di origine protostorica come Albona, Buie, Gallignana, Pinguente o Montona. Ma l’assenza nel borgo attuale di edifici o reperti precedenti al XIV secolo pone numerosi interrogativi sulla data effettiva di fondazione della moderna Pedena. In epoca costantiniana sarebbe stata un borgo fortificato e cinto da mura. C’è da chiedersi se già alla fine del II secolo si posero le basi dell’attuale abitato, posto su un colle leggermente più alto di quello del castelliere.
La sua natura di castello munito, di città-fortezza, ma di piccole dimensioni, è infatti simile a quella di Valle, concepita come Castrum Vallis dopo il 170. Nulla c’entra invece la sua genesi con l’incastellamento dei secoli IX e X. Le due Pedene coesistettero forse per un certo periodo? E se sì, quando?
Non ci aiuta a sciogliere tale nodo il fatto che l’accesso al borgo è costituito dalla cosiddetta Porta Romana, un robusto portale incardinato nelle antiche mura urbiche risalente però al XIV secolo. Il nome parrebbe implicare il suo rifacimento a partire da un precedente manufatto romano. Di quale epoca però non sappiamo.
Secondo alcune fonti, Petina sarebbe stata un Municipio romano esente dall’imposta fondiaria fino al IV secolo. Forse l’istituzione del Municipio avvenne dopo il 170, nell’ambito della riorganizzazione politico-militare della penisola per la difesa dai Barbari.
Le devastanti incursioni dei Visigoti nel 401 e 408 causarono l’abbandono delle ville rustiche dell’Istria interna o la loro trasformazione in centri fortificati e il riversamento di gran parte della popolazione rurale nelle località più difendibili, specie della costa. Potrebbe dunque collocarsi proprio nel periodo successivo alle scorrerie visigote l’edificazione di una fortezza sull’alto colle di Pedena, magari perché il sito del monte Calvario era stato distrutto in quella circostanza.
La leggenda per cui l’imperatore Costantino avrebbe fatto erigere a Pedena una chiesa con le reliquie di san Niceforo martire di Antiochia e istituito la Diocesi petinense nel 324 o 337 testimonia se non altro l’importanza politica, militare, demografica ed economica che allora la cittadina aveva. È tuttavia plausibile che a quel tempo risalga la sua prima chiesa, mentre la prima comunità cristiana potrebbe essersi formata dalla fine del II secolo, se non già con i missionari inviati da sant’Ermacora intorno al 50.
In realtà non si può ragionevolmente parlare di una Diocesi pedenate suffraganea di Aquileia prima del 524, quando il patriarca aquileiese Stefano avrebbe consacrato sei vescovi istriani: Frugifero per Trieste, Nazario per Egida (Capodistria), Fioro per Aemonia (Cittanova), Eufrasio per Parenzo, Antonio per Pola e Niceforo per Pedena. Ma la prima data che certifica storicamente l’esistenza di una Diocesi è il 579, quando al sinodo scismatico di Grado partecipò anche il vescovo di Pedena Marciano (o Marziano o Martino).
Quella di cui stiamo parlando era l’unica Diocesi dell’Istria interna. Inizialmente la sua giurisdizione si doveva estendere su tutta l’Istria orientale, con l’Albonese e la Liburnia costiera fino alla pieve di Gerona (Gerovo) a nord-est di Fiume. Dunque Pedena doveva essere più importante e popolosa delle vicine Alvona e Flanona, parimenti strategiche ma poste ad una quota altimetrica più bassa. Ci sono peraltro ignoti i confini tra le Diocesi di Pedena e Tarsatica.
Il primo duro colpo tramandatoci Pedena lo subì durante una delle incursioni che Avari e Slavi effettuarono all’interno dell’Istria tra il 592 e il 610. La resistenza delle truppe bizantine e istriane fu vana, la città cadde e fu distrutta, le mura demolite. I conquistatori fecero una carneficina, salvo poi ritirarsi oltre i monti della Vena. Resta naturalmente da chiedersi quale Pedena fu resa al suolo: quella sul monte Calvario o quella sull’odierno colle? La logica farebbe propendere per la prima soluzione. Forse proprio allora iniziò la costruzione della nuova Pedena in vetta a un luogo più elevato e quindi più facilmente difendibile. Ciò sarebbe avvenuto nell’ambito del Numerus Tergestinus, organismo politico-militare istituito agli inizi del VII secolo dalle autorità bizantine per favorire l’insediamento di agricoltori-soldati istriani a difesa dei confini dell’Impero Romano d’Oriente, che nell’alto Adriatico, dopo le invasioni longobarda, avara e slava, coincidevano con quelli dell’Istria.
Conseguentemente a tale catastrofe, forse la Diocesi passò in commenda al vescovo di Pola fino all’801, anno in cui sarebbe stata affidata al patriarca d’Aquileia.
Non sappiamo cosa successe esattamente alla Diocesi di Tarsatica dopo che la città venne distrutta o nel 610 dagli Slavi o nel 664 dagli Avari. Comunque sia, nel 929 l’Albonese fu assegnato alla Diocesi di Pola, cessione che il vescovo petinense Stefano riconobbe appena nel 1028, assieme a quella della soppressa diocesi di Tarsatica.
Nel Placito del Risano dell’804 Pedena è citata tra i Municipi istriani che avevano fatto causa contro i loro rispettivi vescovi e il conte Giovanni. Interrogati dai missi dominici di Carlo Magno e Pipino, i maggiorenti della penisola affermarono che in epoca bizantina Pedena versava quale tributo fondiario 20 soldi aurei mancosi, fatto che nella graduatoria dei Municipi più ricchi la colloca al penultimo posto prima della sola Cittanova e a pari merito con Pinguente.
Nel 996 l’imperatore romano-germanico Ottone III infeudò la città con le rispettive decime per tre miglia al patriarca d’Aquileia. Nel 1112 il patriarca avrebbe concesso il feudo ad Enghelberto I degli Eppenstein. A metà del XII secolo, in piena disgregazione feudale, il patriarca, con il consenso del vescovo di Pedena, cedette i diritti enfiteutici del territorio di Pisino, includente Pedena, a Mainardo di Schwarzenburg, obbligandolo però a ripopolare le campagne disabitate, non coltivate e dunque infruttuose. In seguito Mainardo, usurpando beni ecclesiastici, fondò la Contea di Pisino e vi favorì l’insediamento dei primi coloni slavi provenienti dalla Carniola ed in buona parte ancora pagani. La figlia di Mainardo sposò il conte di Gorizia, la cui discendenza continuò ad amministrare la Contea, Pedena inclusa.
Nel 1259 l’invasione ungherese investì duramente il territorio pedenate, desolandolo nuovamente. Ne seguì una nuova immigrazione, questa volta di croati.
All’epoca la chiesa di Pedena era talmente povera che il vescovo si ritirò nel monastero di San Michele in Monte.
In un documento del 1342 Pedena fu denominata Pyben e similmente, nell’urbario di Pisino del 1498, Piebnn. Tale rimase il suo nome per i germanofoni, anche nella variante Biben o Piben. I croati invece presero a chiamarla Pićan, gli sloveni Pićen.
Nel 1374 titolari della Contea divennero i duchi d’Austria.
Sul piano ecclesiastico il territorio della Contea e delle signorie laiche minori limitrofe era suddiviso fra quattro Diocesi: Pola a Sud, a Est e a Nord-Est, Parenzo a Ovest, Trieste a Nord e Pedena al centro.
Dal 1420 la Diocesi di Pedena confinò a sud-est con i territori veneziani.
Nel 1446 papa Eugenio IV concesse personalmente al duca d’Austria Federico III il diritto di nomina dei vescovi di Pedena e Trieste. Nel 1459 tale diritto, salvo conferma papale, venne esteso ai discendenti della casa d’Austria, dal 1453 imperatori del Sacro Romano Impero e arciduchi d’Austria. La dipendenza dagli Asburgo mise in rapporti sempre più stretti i vescovi di Pedena in particolare con la Carniola, dove ottennero spesso delle prebende.
Nel 1492 il vescovo Giorgio I Meninger cedette al conte di Pisino le decime di Novacco e Ceroglie ed altre minori a titolo di avvocazia. In tal modo la Diocesi, per ottenere protezione dal potere feudale laico, si impoverì ulteriormente.
Nel 1508, appena iniziata la guerra tra Venezia e l’ampia coalizione a guida austriaca, Pedena fu occupata dai veneziani, che la tennero fino all’anno successivo.
Nel 1535, quando con il lodo arbitrale di Trento venne ridisegnato il confine austro-veneziano, la Diocesi di Pedena cedette alla Diocesi di Trieste le Parrocchie di Borutto, Sovignacco, Vetta e Draguccio, nonché la Cappellania di Racizze, nell’alta valle del Quieto. Da allora la Diocesi petinense confinò anche a sud con gli ampliati territori veneti.
Nel 1570 il capitano di Pisino e luogotenente dell’Istria imperiale distrusse l’episcopio di Pedena e diroccò a Gallignana il palazzo di villeggiatura dei vescovi costruito un secolo prima dal vescovo Pascasio, nativo di quell’ameno borgo.
Nel 1578 il capitano di Pisino, avendo elevato Pedena dal rango di terra murata a quello di città, la gravò di nuovi tributi, che ne appesantirono ulteriormente le già precarie condizioni economiche.
La guerra degli Uscocchi causò nuove rovine al territorio pedenate. Nel 1616 soldati veneti e mercenari corsi bruciarono mulini e case del contado e probabilmente espugnarono la cittadina, difesa da soldati imperiali, ma non vi rimasero a lungo. Nel 1617 i veneti devastarono nuovamente le campagne, senza però riuscire a impadronirsi del munito borgo.
La peste del 1630 mieté altre vittime, deprimendo ancora una volta un territorio già sufficientemente esausto e un borgo già scarsamente abitato. Nel 1638 fu edificata fuori dalle mura una chiesetta in onore di San Rocco, protettore dalla peste.
Nel 1653 le autorità imperiali domarono sanguinosamente una rivolta contadina scoppiata nella Contea contro gli eccessivi oneri tributari. La repressione coinvolse anche Pedena, dove venne distrutto l’archivio e danneggiato il vescovado.
I vescovi furono di varia origine e nazionalità, perlopiù italiana, austriaca, slovena e croata, compresi alcuni triestini, fiumani, istriani e goriziani. Compensavano le loro scarse rendite con altre prebende, pensioni di liberalità regale o cariche in Prepositure, Arcipreture, Capitoli o Parrocchie. Inoltre esercitavano la giurisdizione civile (non feudale) su Moncalvo, Scopliaco e Tupliaco. Le decime e le regalie più cospicue provenivano da Pedena, Gallignana, Lindaro, Vermo, Pisinvecchio e Vetta. Ma le condizioni economiche della Diocesi peggiorarono nel ’700, tanto che il penultimo vescovo, Bonifazio Cecotti, supplicò l’imperatrice Maria Teresa di elargirgli un sussidio.
Il Capitolo pedenate era formato da quattro o cinque canonici.
Al momento della soppressione, nel 1788, la Diocesi comprendeva solo 12 Parrocchie: Berdo, Carbune, Cepich, Ceroglie, Chersicla, Gallignana, Grimalda (dal 1420 possedimento veneto), Lindaro, Moncalvo (Gollogorizza), Novacco di Pisino, Pedena e San Giovanni d’Arsia (Sant’Ivanaz); e sei cappellanie (o vicariati): Gradigne, Grobenico, Previs, Scopliaco, Sarezzo e Tupliaco. Dunque un ristretto territorio fra Pisino ed Albona escluse, comprendente la valle del torrente Foiba e l’alta Val d’Arsa. Il Kandler e il Tomasin segnalano che nel ’600 Gallignana, seconda località della Diocesi per consistenza demografica e importanza economica, era sede di un’Arcipretura e, secondo il Kandler, anche di un Capitolo collegiale.
Nel 1752, dopo la soppressione del Patriarcato di Aquileia, la Diocesi di Pedena diventò suffraganea dell’Arcidiocesi di Gorizia.
Nel 1784 l’imperatore Giuseppe II, nell’ambito della sua politica giurisdizionalista tesa a razionalizzare l’ordinamento ecclesiastico, soppresse le Diocesi di Pedena e Trieste. Nel 1788 tale decisione fu avallata da papa Pio VI. Così, dopo secoli di ridimensionamenti, per Pedena arrivò il vero e proprio declassamento. Le due Diocesi furono incorporate in quella di Gradisca, soppressa a sua volta nel 1791. Il territorio dell’ex Diocesi di Pedena fu allora incorporato nella ricostituita Diocesi di Trieste (dal 1828 di Trieste e Capodistria). Pedena fu ridotta a Decanato comprendente Ceroglie, Cherbune, Gallignana, Moncalvo, Lindaro, Novacco, Pedena (chiesa decanale) e San Giovanni d’Arsia. Nel 1939 la Parrocchia, istituita nel 1788, fu elevata ad Arcipretura e nel 1977 fu ufficialmente trasferita alla Diocesi croata di Parenzo-Pola.
Nella chiesa cattedrale di Pedena e nel duomo di Gallignana si usò quasi sempre il latino nella liturgia e il volgare italiano nel catechismo e nelle comunicazioni tra clero e fedeli. Al contrario, in gran parte delle Parrocchie e Cappellanie del circondario, prevalse progressivamente l’uso dei dialetti slavi parlati dalle popolazioni insediatesi nelle campagne e originarie della Dalmazia o dei territori imperiali oggi sloveni o croati. Già alla fine del ’500 molti degli stessi sacerdoti del contado e i monaci del convento della Madonna del Lago (l’unico della Diocesi) risultavano ignorare il latino e celebrare la liturgia glagolitica. Nel 1674 il vescovo Bernardino Corniani scrisse che nel territorio diocesano vivevano 50mila persone, di cui 20mila italiani e 30mila slavi, i quali però padroneggiavano tutti l’italiano (o meglio il dialetto istro-veneto). Il vescovo Antonio da Zara (1600-1621), in ossequio ai dettami del sinodo patriarcale del 1596, si impegnò nel riaffermare l’uso della lingua latina in sostituzione di quella vetero-slava in tutto il territorio diocesano. Il glagolitismo riprese vigore nella seconda metà dell’800 in parallelo al risveglio nazionale croato.
Nel 1925, nel duomo di Pedena, la predicazione avveniva in croato nella prima messa mattutina, rivolta alle popolazioni rurali, e in italiano nella seconda, rivolta alla popolazione urbana. In croato erano anche le litanie nelle processioni e durante la Via Crucis.
A Moncalvo la messa veniva cantata in latino, le letture venivano pronunciate prima in latino e poi in croato, i sacramenti amministrati in croato con formule latine, i funerali in latino, il Tantum Ergo in latino, mentre le litanie, la Via Crucis e il rosario in croato.
A Novacco la messa veniva cantata in latino, ma la Via Crucis e il rosario erano in croato.
Anche a Cherbune la messa veniva cantata in latino, e in latino erano i Dominus vobiscum e le risposte; solo gli oremus erano intonati in croato, lingua in uso per i riti esequiali.
Nel 1933 la Via Crucis rimaneva nella chiesa parrocchiale di Pedena l’unico atto liturgico o paraliturgico in lingua slava.
Nel 1897 il parroco di Pedena Giovanni Bas definì il popolo di Pedena «religioso, di buona e docile indole, purché venga trattato docilmente».
Mons. Piero Rensi, ultimo parroco italiano dal 1927 al 1948, scrisse: «A Pedena cittadina si parlava soltanto italiano veneto, mentre nelle frazioni si parlava generalmente la lingua croata, però infarcita di molti vocaboli italiani […] la gente è buona, brava lavoratrice dei campi e molto religiosa».
Nel 1928 lo stesso Renzi proibì la millenaria pratica originariamente pagana di portare il 30 settembre, giorno successivo a San Michele, del vino e del cibo sulle tombe del cimitero.
L’antico rito delle rogazioni (anche questo pre-cristiano), ossia delle processioni propiziatorie per la semina dal duomo alle chiesette circostanti si interruppe nel 1943, a Gallignana nel ’47.
L’8 settembre 1943 i partigiani jugoslavi irruppero nel duomo. Capo dei partigiani era un galeotto originario del contado condannato per violenza e tentato omicidio. Nelle cave di Gallignana fu ucciso tra gli altri il gallesanese don Angelo Tarticchio. All’inizio di ottobre, i tedeschi in un rastrellamento eliminarono 26 persone, di cui solo alcuni partigiani e gli altri contadini non politicizzati. Dalla cava di bauxite di Lindaro i vigili del fuoco di Pisino estrassero trenta cadaveri, torturati ed evirati. Pochi mesi più tardi alcuni titini tentarono di sopprimere il parroco, che però fu difeso dai suoi parrocchiani. Nel maggio 1944 arrestarono e uccisero suo nipote Aldo. Il vescovo Santin visitò due volte Pedena per portare conforto e aiuti alle famiglie colpite.
Nella notte fra il 9 e il 10 giugno 1944 duecento partigiani assediarono la caserma dei carabinieri, che si arresero con la garanzia di aver salva la vita. Ma i titini li passarono per le armi quasi tutti, incendiarono l’edificio, uccisero un ferito e lo gettarono fra le fiamme.
Due o tre volte per settimana a Pedena capitavano tedeschi e fascisti che pretendevano cibo, così come i temibili partigiani durante le loro sortite notturne.
L’11 marzo ’45 un colonnello tedesco ordinò la fucilazione degli abitanti, incolpandoli di non aver segnalato l’arrivo dei partigiani che avevano sterminato dodici soldati tedeschi in un’imboscata. Grazie all’intercessione del parroco, la popolazione fu salva.
Instaurati i “poteri popolari”, le scuole furono ridotte da sei a tre e solo in lingua croata. Don Rensi dovette abolire quasi completamente la lingua italiana nelle funzioni religiose, conservando però la lingua latina. La musica sacra tradizionale, affidata oltre che ai sacerdoti anche alle confraternite laiche, si conservò fino al 1945, a Gallignana un po’ più a lungo. Così anche la processione del 30 dicembre in onore del patrono san Niceforo vescovo.
Nel 1947 fu proibito ai maestri delle elementari di far recitare le preghiere prima e dopo la scuola, dalle classi furono asportati i crocifissi, e furono espropriati i 64 ettari di terreno del beneficio ecclesiastico e gli animali del parroco. Nel settembre 1948 a don Rensi fu ordinato di lasciare Pedena, cosa che fece dopo essersi accomiatato dai suoi parrocchiani prima in chiesa e poi in cimitero. Mons. Santin lo definì «un martire, un eroe». Senza di lui venne meno un baluardo di resistenza religiosa a un regime oppressivo, oltre che di italianità.
Dopo il 1948, con l’Esodo di quasi tutta la popolazione italiana, la soppressione del latino a livello liturgico e la propaganda ateistica di Stato, si estinse una lunga tradizione religiosa latino-italica che datava dai primordi del cristianesimo.
Resta da chiederci: come è stato possibile che una minuscola cittadina abbia conservato per due millenni la sua lingua e identità latina in un contesto territoriale demograficamente sempre più slavo e politicamente sempre più austriaco?
Di certo un contributo importante lo diede l’ininterrotto utilizzo del latino nella liturgia e del dialetto istro-veneto nell’insegnamento, che poi per alcuni continuava all’Università di Padova. Ma determinante fu la persistenza della funzione urbana e di mercato del borgo, sede di artigiani, commercianti e professionisti acculturati che non si trovavano invece nei villaggi slavi o morlacchi. In tale ottica l’afflusso di immigrati carnici (tra cui gli antenati paterni di Lorenzo Rovis), dediti in particolare all’artigianato, alimentò il ruolo cittadino di Pedena, a servizio del contado, e al contempo la sua italianità. Peraltro anche i contadini residenti nel borgo si esprimevano in dialetto istro-veneto. La sempre più accentuata esiguità della popolazione italofona borghigiana rispetto a quella dei villaggi la indusse però ad apprendere almeno i rudimenti della lingua dei villici, diversamente da quanto succedeva di solito nei maggiori centri italofoni, specie quelli lungo la costa.
La lingua rumeno-morlacca, parlata da un numero troppo esiguo di immigrati, andò invece perdendosi.
La gente dei villaggi si recava a Pedena a piedi per la messa domenicale, le fiere, i battesimi e i funerali. La dicotomia città-campagna, italianità-slavità era dunque parzialmente compensata da una certa osmosi.
I nomi dei villaggi circostanti rendevano al plurale quello delle famiglie fondatrici o comunque più diffuse.
Negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso i cognomi più diffusi a Pedena erano in maggioranza slavi, a dimostrazione che nel corso dei secoli molti abitanti del contado si erano stabiliti nella cittadina, assumendone in gran parte lingua, usi e costumi: Anicich, Bachiaz, Bacich, Belussich, Bencovich, Bradicich, Chicovich, Comisso, De Franceschi, Fabian, Fonovich, Fornasar, Francovich, Fumich, Ghersinich, Gherbaz, Holjovica (Collovizza), Lenzovich, Lizzul, Luches, Lupetina, Marotti, Marzaz (Marzini), Masnich, Monti, Nacinovich, Nesich, Niclis, Rovis, Sestan, Vretenar.
Pedena, con numerosi villaggi del circondario, fu frazione dell’esteso Comune di Pisino. Dai 2.119 abitanti del 1850 salì ai 2.749 del 1936, per poi crollare nel dopoguerra. Secondo i censimenti, dal 1880 al 1910 i croatofoni dell’intera frazione prevalsero sempre sugli italofoni nella proporzione di circa 9 a 1. Gli italofoni oscillarono da un massimo di 270 nel 1880 a un minimo di 178 nel 1910. Nel 1921 i rapporti si ribaltarono e gli italofoni divennero maggioranza nella misura del 71,5%: un dato però poco attendibile.
Negli anni ’90 Pedena è diventata Comune a se stante e in base al censimento del 2011 conta 1.827 abitanti, di cui il 74,44% croati e appena lo 0,55% (10) italiani: meno dei serbi, mentre il 22,06% si è dichiarato istriano. Gli italofoni sono ancora meno: 8, ovvero lo 0,44%. Il borgo conta circa 300 abitanti. Ancora più drammatica, se possibile, è la situazione a Gallignana, dove gli italofoni sono solo 3 (lo 0,21%) e gli italiani 2 (lo 0,14%).
Dunque la fiammella dell’italianità a Pedena e nel suo territorio si sta spegnendo. Un modo per scongiurarne l’estinzione definitiva potrebbe essere quello di promuovere tra gli esuli e i pochissimi italiani residenti la stesura di un dizionario del dialetto pedenate incentrato primariamente sulle sue caratteristiche più specifiche, affinché ne rimanga testimonianza.
Fra i pedenesi illustri di lingua italiana l’autore ricorda: Giambattista Podestà, nominato professore di lingue orientali nel 1694; Melchiorre Corelli (1886-1955), docente nelle scuole medie di Pola, podestà di Albona durante l’occupazione tedesca, esule a Trieste e rifondatore della rivista “Pagine istriane”; Casimiro Rovis, nominato da Pio XI Cameriere Segreto Soprannumerario di Sua Santità. Di lingua croata: Simone Kurelić, avvocato, sindaco di Pisino e deputato provinciale dell’Istria ai tempi dell’Austria; don Matteo Kurelić; e il compositore Matteo Braisa.
L’aspetto architettonico di Pedena, con la sua piazza centrale, le callette, gli archi e i ballatoi, è tipicamente istro-veneto. Ciò dipende dalla sua antica matrice romana e dalla sua persistente dimensione urbana.
L’ex chiesa cattedrale, ora parrocchiale, risalente al XIV secolo, ampliata fra il 1608 e il 1613, fu interamente rifatta fra il 1753 e il 1771 in un sobrio stile barocco. Il bel campanile a base quadrata, eretto nel 1886 in stile veneto, alto 67 metri, con una cuspide piramidale, tre trifore per ogni lato e tre ordini di cornicioni, assomiglia a quello di Rovigno, ma è tutto in pietra bianca ed ha un aspetto meno slanciato e più solido.
Lorenzo Rovis, nato nell’ottobre 1945 nella casa vicina alla chiesa parrocchiale e un tempo cattedrale, è figlio delle due Pedene: quella urbana e quella rurale. Il padre, italiano, era di Pedena, la madre, croato-ciacava, del villaggio di Cunizi, dove Lorenzo visse i suoi primi 9 anni di vita con i nonni e zii materni Anicic, non potendo ricongiungersi ai genitori rifugiatisi a Trieste. Figlio di due storie, di due insediamenti diversi: quella dei carnici immigrati nell’Istria arciducale per sopperire alla carenza di artigiani, e quella degli slavi, contadini o pastori giunti in zona dal XII secolo.
Solo una volta la madre poté fargli visita. Lorenzo si riunì ai genitori appena il 17 agosto 1954.
Dei quattro fratelli Rovis, tre, fra cui il padre di Lorenzo, esodarono, mentre uno rimase per accudire il nonno e preservare le proprietà. Dalla parte di sua madre, tre fratelli esodarono, mentre quattro rimasero. Ciò rispecchia la più generale realtà istriana, per cui l’Esodo fu più massiccio dalle cittadine, meno dalle campagne, e riguardò quasi tutti gli italiani, ma anche diversi slavi o mistilingui.
Paolo Radivo