STRAGE DI VERGAROLLA

Strage di Vergarolla: verità ancora cercasi

Il Circolo di cultura istroveneta “Istria” ha tenuto il 21 marzo nella sala della libreria “Minerva” a Trieste un dibattito su Vergarolla e il suo contesto, con il sottotitolo Perché la storiografia ha bisogno di incontri, non di scontri. Il moderatore Biagio Mannino, collaboratore scientifico del Circolo, ha intervistato i tre ospiti: lo storico Fulvio Salimbeni, il presidente del Circolo stesso Livio Dorigo e il direttore de “L’Arena di Pola” Paolo Radivo. La sala era piena, il pubblico attento e partecipe. L’incontro ha rappresentato la serena e proficua continuazione di un dialogo avviato il 17 maggio 2014 a Pola, quando furono presentati congiuntamente il libro di Gaetano Dato Vergarolla 18 agosto 1946. Gli enigmi di una strage tra conflitto mondiale e guerra fredda, promosso dal Circolo “Istria”, e l’opuscolo di William Klinger La strage di Vergarolla: fonti jugoslave, promosso dal Libero Comune di Pola in Esilio.
Fare i conti con la storia europea «Il 18 agosto 1946 – ha esordito Mannino – sulla spiaggia di Vergarolla ci sono tantissime persone. E’ domenica e la gente si reca al mare per cercare di passare al meglio una calda giornata in serenità, anche se il clima era di incertezza e insicurezza. All’improvviso le bombe depositate sulla spiaggia esplodono. I numeri sulle vittime sono contraddittori. Ufficialmente risultano 65 i morti e almeno una cinquantina i feriti, ma oggi si ritiene che fossero decisamente di più: 110 (sembra) i morti, per quanto non confermabili. Un terzo erano bambini. Sono passati 70 anni e molti testimoni hanno vissuto la loro vita con cristallizzate quelle immagini di violenza, di sangue. Oggi non esiste più la Jugoslavia. Croazia, Slovenia e Italia fanno parte dell’Unione Europea, che lavora per la creazione del “cittadino europeo�. A tal fine l’Europa deve fare i conti con la propria storia. Per comprenderla e condividerla bisogna analizzare i luoghi, gli eventi, i casi che hanno portato alle contrapposizioni che ancora ci caratterizzano. Vergarolla nella storia europea rappresenta uno di questi». Minoranze da eliminare «Pola – ha spiegato Salimbeni – viveva una situazione di relativa tranquillità rispetto al resto dell’Istria, a Fiume e alla Dalmazia perché sotto occupazione anglo-americana. Anche se c’erano scontri tra le fazioni filo-italiana e filo-jugoslava, non si viveva in quel clima di terrore instauratosi invece negli altri territori già italiani occupati dalle forze partigiane di Tito. Comunque tutta la Venezia Giulia e la Dalmazia erano in uno stato di precarietà. La Dalmazia era già stata occupata militarmente nell’ottobre ’44. In base agli accordi del giugno ’45, l’Istria era sotto controllo jugoslavo, mentre Trieste era amministrata dagli anglo-americani in attesa delle decisioni della Conferenza della pace in corso a Parigi. Quando ci fu l’esplosione di Vergarolla, la situazione era ancora molto in forse. A Yalta prima, a Potsdam poi, Stalin, Roosevelt, il suo successore Truman e Churchill avevano deciso che nel nuovo assetto geopolitico dell’Europa post-bellica doveva essere risolto alla radice il problema delle minoranze, perché erano state una delle carte che Hitler molto abilmente aveva utilizzato nel ’38-39 per la sua politica di espansione. Altro che lo slogan di oggi “le minoranze sono una ricchezza�! Erano viste come una bomba a orologeria pericolosissima. Quindi con l’autorizzazione, anzi l’invito, delle potenze vincitrici ai paesi dell’Europa centro-orientale, fra ’45 e ’46 comincia la politica di espulsione violenta delle minoranze: più di tre milioni e mezzo di tedeschi dai Sudeti per volontà del governo ancora democratico di Praga; milioni di tedeschi dai territori della Germania orientale ceduti alla Polonia, che slitta di 300 chilometri a ovest; milioni di polacchi dalle terre orientali cedute all’URSS. La stessa cosa accade con la minoranza ungherese in Slovacchia e quella romena in Ungheria. Anche nella Venezia Giulia, in particolare nei territori già occupati dagli jugoslavi, c’era il timore che potesse accadere qualcosa del genere. Dopo la prima, relativamente ridotta, ondata di fughe dopo le violenze dell’8 settembre ’43, fra il ’45 e il ’46 era già incominciata una nuova ondata di esodi, a parte il caso di Pola che gli angloamericani avevano voluto perché era un’importante base navale». Una strage dimenticata dagli italiani «Quel 18 agosto – ha testimoniato Dorigo – stavo andando a Vergarolla. La mia famiglia è partita dal centro della città con un minimo di ritardo sulla programmazione e quindi eravamo sul barcone che faceva la spola dal porto. Lo scoppio ci ha preso mentre ci stavamo imbarcando. E’ stato un qualcosa di terribile: prima un lampo, poi un tuono. Le onde d’urto sono arrivate fino al porto e son cominciati a cadere anche sassolini. Ci siamo subito resi conto di dov’era il luogo dell’esplosione. Ho preso la bicicletta e mi sono avviato verso Vergarolla via terra. Quando sono arrivato in prossimità della baia, ho trovato pompieri, Polizia Civile, Polizia Militare, che hanno allontanato tutta la gente accorsa per vedere. La Croce Rossa portava via i feriti. Su “L’Arena di Pola� uscì un articolo di fondo dell’allora direttore Guido Miglia che esprimeva il dolore e lo stupore della città per questo scoppio avvenuto a un anno e mezzo dalla fine della guerra. Eravamo abituati a vedere bombardamenti, deportazioni… Abbiam vissuto l’8 settembre in modo drammatico: 20.000 soldati abbandonati, asserragliati nelle caserme e deportati in Germania. Abbiamo vissuto con grande intensità una situazione drammatica. Mai però avremmo potuto pensare a un fenomeno come quello di Vergarolla, che ha toccato direttamente o indirettamente tutta la città. Lì c’era la sede della “Pietas Julia�, frequentata anche da rappresentanti politici. Era stata chiusa e soppressa dall’Austria e dopo il ’18 si era ricostituita. Posso dire di essere nato a Vergarolla. Mio padre e mia madre si sono conosciuti lì e ci andavamo ogni domenica. Mia madre era una canottiera. Per noi è stato un dramma. Dopo tutte le stragi e tutto ciò che avevamo vissuto e credevamo di aver superato, con quello scoppio la città ha perso la sua anima». «Questa strage avvenuta a Pola in territorio italiano – ha aggiunto Dorigo – è stata dimenticata da tutto il nostro paese. Io ho vissuto a Roma, a Perugia, poi a Cremona e a Varese: non ne sapevano nulla, come della sciagura di Arsia… E’ calato il silenzio, la dimenticanza totale di ciò che abbiamo vissuto in quel triste periodo. Essere sradicato dalla propria terra è un trauma che ti porti dietro tutta la vita. Ieri sono stato a Pola per sistemare la questione della tomba di famiglia e sono tornato a casa stanchissimo, quasi distrutto per tutte le emozioni contraddittorie che avvenivano dentro di me: nostalgia, malinconia, rabbia. E’ una città che ancora non mi dà pace. Eppure è la mia città. Uno fa di tutto razionalmente per inserirsi nella storia, ma intimamente c’è qualcosa che ti manca. Siamo riusciti a mettere un cippo a Pola in occasione del 50° anniversario della strage con l’amico Mario Quaranta, allora vice-sindaco. Luciano Delbianco in un suo discorso scritto parlò di “vile attentato� perpetrato contro la città. Abbiamo fatto di tutto per commissionare un libro sulla strage di Vergarolla, mentre il Libero Comune di Pola in Esilio ne ha fatto un altro. Due libri che avevano come obiettivo quello di completarsi, ma che sono stati strumentalizzati e interpretati in contrapposizione. Questa è una profonda amarezza perché il nostro obiettivo anche oggi è di iniziare un percorso per approfondire il contorno, la vita della città. Miglia scrisse che la colpa è di tutti e di nessuno. La colpa è della guerra. Noi che abbiamo tanto sofferto per la guerra dobbiamo creare un clima di pace che permetta alle future generazioni di vivere in Europa nella serenità come figli della stessa Madre Terra». Una manifestazione sportiva, ma anche di italianità «Il quotidiano del CLN “L’Arena di Pola� aveva invitato la cittadinanza – ha esordito Radivo – a partecipare a quella che avrebbe dovuto essere una grande festa sportiva, ma anche una implicita manifestazione di italianità. Il luogo prescelto era l’insenatura di Vergarolla, a sud-ovest della città, delimitata su un lato da un molo di pietra, da un pontile di legno e da baracche militari dismesse. Al centro si trovava la sede della Società nautica “Pietas Julia� per le attività balneari e veliche, con alcuni capannoni e una tettoia. Sull’altro lato c’era una spiaggia e, poco più all’interno, una pineta erbosa. Sulla spiaggia, a ridosso dalla battigia, giacevano abbandonati e incustoditi dal maggio ’45 una trentina di ordigni reclamati dalla Jugoslavia come preda bellica, ma sotto la responsabilità del Governo Militare Alleato in attesa che la Commissione sui bottini di guerra ne decidesse la destinazione finale. Quella mattina erano in programma gare natatorie, mentre nel pomeriggio si sarebbero dovuti tenere una gara di tiro alla fune in acqua e un torneo di pallavolo. La sera era prevista una Gran veglia danzante per i 60 anni della “Pietas Julia�. Sul posto c’erano soltanto italiani: polesi e profughi della Zona B della Venezia Giulia. Tutti filo-italiani poiché l’iniziativa era di una società fortemente patriottica come la “Pietas Julia�. Durante la pausa pranzo molti stavano finendo di mangiare all’ombra degli alberi. Altri stavano prendendo il sole, passeggiando, giocando, correndo o nuotando. 65 morti identificati, ma forse 116 effettivi «Alle 14.15 – ha continuato Radivo – molti degli ordigni improvvisamente deflagrarono. Si alzò una colonna di fuoco, presto trasformatosi in fumo nero, che provocò nella pineta un incendio poi sedato dai pompieri. Poco prima del boato si avvertì una scossa di terremoto che in città ruppe i vetri di tante finestre e scardinò infissi e porte, facendo tremare edifici e mobili. Lo scoppio dilaniò, decapitò o ridusse a brandelli numerose persone scagliandone i resti a decine o centinaia di metri di distanza, in acqua, a terra o sugli alberi. I gabbiani se ne cibarono. Altre risultarono ferite, annerite, bruciacchiate e doloranti. Uno spettacolo orribile, spaventoso. Una carneficina, “un macello� come lo definì il vescovo di Parenzo e Pola Raffaele Radossi. I soccorsi furono pronti ed efficaci. Sul posto arrivarono subito agenti della Polizia Civile e Militare, infermieri, rastrellatori di mine e pompieri, che soccorsero i tantissimi feriti e ne portarono diverse decine all’ospedale militare o all’ospedale civile. La contabilità delle vittime risultò fin dall’inizio ballerina a causa della rapida polverizzazione di ogni traccia di non poche fra queste, mentre di altre rimasero semplici brandelli insufficienti all’identificazione. Inoltre molti profughi della Zona B, generosamente ospitati negli appartamenti, nelle cantine o nelle soffitte dei polesani, non erano registrati all’anagrafe. “L’Arena di Pola� pubblicò un elenco di 64 vittime identificate. Recentemente, tramite verifiche incrociate, si è giunti a identificarne 65. Ma il dottor Geppino Micheletti, che curò ininterrottamente molti dei feriti salvandone diversi, disse in presenza di testimoni che i morti complessivi dovevano essere fra i 110 e i 116. Quanto ai feriti, inizialmente si disse una cinquantina, ma probabilmente superarono il centinaio poiché alcuni non furono ricoverati e altri morirono nei giorni successivi. Tra i feriti vi furono anche 4 militari britannici in libera uscita: 2 gravi e 2 leggeri». Gli alleati declinarono ogni responsabilità «I funerali – ha proseguito Radivo – ebbero luogo il 20 agosto a spese del Comune. Furono l’unico evento che fra il maggio 1945 e l’esodo del ’47 vide riunita tutta la città, al di là delle contrapposizioni anche feroci tra filo-jugoslavi e filo-italiani. Sia “La Posta del Lunedì�, settimanale del CLN, sia “L’Arena di Pola�, sia “Il Nostro Giornale�, di orientamento filo-jugoslavo, accusarono il GMA di trascuratezza per non aver né recintato l’area delle bombe né fatto affiggere un cartello indicante la pericolosità, chiesero l’individuazione dei responsabili, se di attentato si trattava, e reclamarono la rimozione e distruzione di tutti i munizionamenti ancora presenti in città. A seguito di tali polemiche, tra l’11 settembre e i primi di dicembre il GMA fece brillare sul posto o gettò in mare tutti questi esplosivi invece di consegnarli agli jugoslavi». Gli indennizzi ai feriti e ai familiari delle vittime «Il 22 agosto – ha rilevato Radivo – il segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio chiese sia al Governo italiano sia alla Commissione Alleata di Controllo sull’Italia di corrispondere un indennizzo ai familiari delle vittime. Il Governo De Gasperi inviò subito 2 milioni di lire al presidente di Zona di Pola, che il 25 agosto con l’autorizzazione alleata istituì un Comitato per l’Assistenza dei Feriti e delle Famiglie delle Vittime di Vergarolla, il quale aprì un ufficio per ricevere e vagliare le richieste. In dicembre la Presidenza di Zona iniziò a versare le somme. L’operazione procedette a rilento, tanto che alcune persone già esodate dovettero tornare a Pola entro il settembre 1947 per fare richiesta. Gli alleati pretesero che non si parlasse di indennizzi, bensì di meri contributi assistenziali. Questo per allontanare da sé qualsiasi responsabilità legale circa l’esplosione, da considerare come un disastro naturale. Del resto lo stesso Governo italiano aveva negato le proprie responsabilità per un episodio analogo a Torre del Greco». Non possono essere stati i servizi segreti italiani «Episodi come quello di Vergarolla – ha detto Salimbeni – non avrebbero potuto portare a un nuovo conflitto in Europa. Nell’estate del ’46 la situazione era ancora fluida. Non si parlava di guerra fredda. Si sarebbe cominciato l’anno dopo. Ma i rapporti che c’erano stati fino all’estate del ’45 fra URSS, USA e Regno Unito incominciavano ad alterarsi. Iniziava una contrapposizione. L’Europa centrale era ancora in una fase di incertezza. La Cecoslovacchia era ancora un paese pienamente democratico; solo il colpo di stato del febbraio ’48 la porterà nell’orbita sovietica. Il regime comunista si era instaurato negli stati “liberati� dall’URSS, cioè Polonia, Romania, Bulgaria. La Jugoslavia era un caso a sé, l’Ungheria si stava avviando a un regime pienamente comunista, mentre l’Austria era divisa tra le potenze vincitrici. L’attentato di Vergarolla ha un impatto indubbiamente notevole prima di tutto sulla cittadinanza, perché da quel momento incomincia l’esodo per la paura che sarebbe potuto accadere qualcos’altro del genere. Quasi subito si comincia a sospettare che dietro ci sia lo zampino di qualcuno che aveva l’interesse a terrorizzare la popolazione italiana. Qualcuno ha invece sostenuto che sarebbero stati addirittura i servizi segreti italiani a provocare l’attentato per screditare la Jugoslavia e favorire questo clima di instabilità e di tensione in chiave ovviamente anti-jugoslava. Non ci credo assolutamente, ma questa è una delle voci che da un certo settore arrivano. La vicenda di Vergarolla va collocata in questo quadro internazionale e in particolare dei rapporti tra Italia e Jugoslavia, mentre la Venezia Giulia era divisa in Zona A e Zona B con la situazione anomala e particolare di Pola». Inglesi e francesi ci erano ostili «Quel periodo – ha affermato Dorigo – è stato dimenticato un po’ da tutti perché le responsabilità di quanto è avvenuto nel Secolo Breve sono un po’ di tutti. Quindi hanno tutti tentato di tirar giù una cortina di oblio. A Pola tutti i giorni dopo l’8 settembre sono stati tremendi. Ci sono stati due gravissimi scoppi al Molo Carbone e a Vallelunga, con morti e terremoti. Mentre Trieste era occupata prevalentemente dagli americani, Pola era amministrata dagli inglesi, che ci consideravano nemici. In tutta la guerra nel Mediterraneo la Marina italiana aveva provocato gravi danni alla Marina inglese, e c’erano soprattutto marinai e ufficiali della Marina inglese ad amministrare Pola. Quindi gli inglesi e soprattutto gli scozzesi ci vedevano con malocchio e grande ostilità. I francesi avevano interesse ad avere l’appoggio dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia per rivendicare cose sul confine occidentale, e le ottennero. A Cuneo e in Val d’Aosta issarono la bandiera francese. Partigiani di Cuneo assieme alla “Monte Rosa� si opposero all’occupazione francese di territorio italiano, come successe con i militanti della “Osoppo� e gli ex della X MAS. La popolazione reagì ai soprusi che i Quattro Grandi determinarono al confine sia orientale che occidentale». Fu una strage premeditata «Sia le indagini, sia le testimonianze, sia la dinamica dei fatti – ha sostenuto Radivo – ci portano a dire che quella di Vergarolla fu una strage premeditata. La Polizia Civile avviò subito un’indagine, concludendo il 24 agosto che gli ordigni, risultati privi di spolette e micce durante i controlli del febbraio e maggio ’46, non sarebbero potuti esplodere senza l’intervento di un esperto. Dieci testimoni affermarono di aver udito, 5-15 secondi prima dello scoppio, un rumore simile a un colpo di pistola: probabilmente il colpo di attivazione di un detonatore a lungo ritardo chimico innescato da una miccia. Un testimone ricordava una successione di scoppi; qualcuno addirittura una decina a distanza di pochi secondi l’uno dall’altro. Due videro una scia di fumo biancastro brillante dirigersi dal mare verso gli ordigni, far detonare la carica primaria e quindi far esplodere le bombe. Rosmunda Bronzin Trani disse che la mattina un uomo ben vestito stese un “filo� attraverso la pineta, poi con un coltello lo aggiuntò e infine sparì. Un soldato britannico notò un pezzo di miccia di sicurezza (che può stare anche sott’acqua) bruciare vicino agli ordigni. Altri testimoni videro una striscia di fumo bluastro procedere da terra verso le bombe e udirono un colpo di pistola prima della detonazione. Il prof. Giuseppe Nider, dell’Associazione Partigiani Italiani di Pola, già ufficiale del Regio Esercito, recatosi sul posto subito dopo l’esplosione con un maggiore inglese, riscontrò nella vicina cava, oltre la strada che costeggiava la pineta, tracce di apparati per l’innesco a distanza di detonatori uguali a quelli usati nelle miniere dell’Arsa sotto controllo jugoslavo. Dunque le micce sarebbero state due: una attivata dalla cava e l’altra da una barca». Vennero notati individui sospetti «Una Corte militare d’inchiesta – ha continuato Radivo – sentì tre ufficiali, che testimoniarono di aver ispezionato più volte le bombe nei mesi precedenti. Erano 15 o 20 cariche marine di profondità di produzione tedesca o italiana, 3 testate di siluro, 4 cariche di profondità al tritolo o mine C e 5 bombe fumogene. Essendo tutti questi ordigni privi di detonatori, si dedusse che le esplosioni erano dipese “da atti intenzionali di una o più persone ignote�. Un esperto navale francese dichiarò che non c’erano esplosivi prodotti in Francia. L’ipotesi di autoinnesco per calore, diffusasi a Pola in epoca jugoslava e presente ancor oggi, è difficilmente sostenibile. Sembra più che altro un depistaggio per coprire qualcuno. Comunque non tutti gli ordigni esplosero. Qualcosa fece cilecca. Altrimenti i morti e i feriti sarebbero stati molti di più. Tre testimoni videro un uomo aggirarsi con fare sospetto sulla spiaggia alle 13.30, raccogliere una grande pietra, trasportarla da qualche parte, raggiungere la pineta alle spalle delle bombe, accendervi una fiamma (forse un segnale?) e allontanarsi. La Polizia Civile diramò un comunicato, ripreso dai giornali, che invitava a mettersi in contatto chiunque avesse visto lì un uomo di 40-45 anni, alto 1,60-1,65 m, con viso sottile, naso aquilino, colorito abbronzato, capelli castani, vestito con abito grigio scuro. In base a questo identikit il 24 agosto fu arrestato e interrogato ma subito rilasciato Antonio Macci Radocchi. Un bagnante raccontò di aver visto una barchetta con una bandiera jugoslava sostare vicino alle bombe prima dell’esplosione. Forse la stessa notata lì da altri testimoni tre giorni prima. Gino Salvador scrisse di un uomo approdato la mattina su una barchetta di idrovolante al vicino cantiere navale Lonzar. Disse di venire da Brioni (Zona B). Aveva statura media, colorito bruno, capelli neri ricciuti e pantaloni di tela blu». Indizi sui possibili esecutori «Intorno al 1986, mentre Sergio Marini – ha proseguito Radivo – era in raccoglimento a Pola presso la tomba della sorella Liliana morta a Vergarolla, una persona gli si avvicinò e gli disse: “Ma lei lo sa che quello che ha fatto scoppiare le mine di Ver­garolla è ancora vivo? Abita a Fasana�. Fasana era il centro dei servizi segreti jugoslavi per l’area di Pola durante l’occupazione anglo-americana. In un articolo sul quotidiano “Glas Istre� dell’agosto 1999 il giornalista David Fištrović informò di una lettera d’addio lasciata ai familiari da un polese suicidatosi che diceva di aver agito “su ordine di Albona� in riferimento a un’esplosione. Scrisse: “Il fatto che i resti dei detonatori fossero gli stessi che venivano adoperati dai minatori e che ad Albona dove c’erano le miniere si trovasse la sede principale dell’organizzazione polese titina forse potrebbe aiutare a risolvere il caso di Vergarolla�. Fištrović comunicò a Vivoda che il suicida si chiamava Ivan (Nini) Brljafa, uno tra i primi membri del Partito Comunista Croato clandestino di Pola che durante la guerra aveva fatto il gappista in città insieme a Livio Šain, con il quale aveva compiuto un attentato alla mensa degli ufficiali tedeschi. Era stato membro del gruppo dell’OZNA operante tra Fasana e Peroi. Fu poi direttore del Cantiere “Scoglio Olivi� e nel 1963 presidente dell’Assemblea comunale di Pola. Nel 1979 si suicidò, probabilmente per la disperazione dovuta a un tumore ai reni». «Nel 2008 – ha rammentato Radivo – abbiamo letto sul “Piccolo� il testo di un documento inglese desecretato del 19 dicembre 1946 che prendeva per buona un’informativa del Battaglione 808° dei Carabinieri, ovvero il controspionaggio italiano. C’era scritto: “Uno dei sabotatori è Kovacich Giuseppe. Si presume che la sua descrizione corrisponda con quella divulgata dagli Alleati, ovvero: alto, magro, capelli castani, naso aquilino, occhi blu. Si segnala che Kovacich è uno specialista in atti terroristici nonché responsabile di numerosi crimini. In passato si recava regolarmente da Trieste a Fiume tre volte alla settimana, a bordo di un’automobile targata “R�: agiva come messaggero per l’OZNA e riferiva in via Cicerone 2 a Trieste. Dopo l’esplosione non è stato più visto in città�. Di lui parlava già un’informativa del Battaglione 808° datata 6 luglio 1946. Però non si ha certezza di una sua presenza a Pola nel ’46. Dunque non abbiamo elementi per dire che fu tra gli attentatori. Sappiamo invece che morì nel 1962 ed è sepolto nel cimitero di Fiume assieme ad altri partigiani». «Un signore residente a Pola ha rivelato a Claudio Bronzin – ha riferito Radivo – di conoscere i nomi di due polesani che il giorno dopo l’eccidio avrebbero festeggiato insieme a due attentatori in una trattoria di Monte Castagner. Toni Persich, un nostro connazionale residente a Pola, confidò all’esule Sergio Rusich che quattordici polesi brindarono in un’osteria di Monte Grande dieci giorni dopo la strage. Su “La Voce del Popolo� del 6 marzo 2014 la polesana “rimasta� Ornella Smilovich dichiarò che molti degli attentatori erano comunisti italiani di Pola i cui nomi sono noti in città. E il sottoscritto ha ricevuto da un anziano rovignese attendibile la rivelazione che a Rovigno alcuni ferventi titoisti esultarono appena seppero della dura “lezione� data alla “reazione� italiana». I giovani non sanno nulla di Vergarolla «E’ giustissimo – ha sostenuto Salimbeni – che la storiografia abbia bisogno di incontri e non di scontri, come scritto nell’invito. La storia si presta a strumentalizzazioni e manipolazioni. Però gli storici seri hanno saputo resistere ai condizionamenti facendo sempre lavori rigorosi. Poi che le loro opere possano essere state strumentalmente utilizzate non dipende certo da loro». Il docente ha raccontato alcuni aneddoti sulla spaventosa ignoranza degli studenti universitari agli esami di storia contemporanea: «E volete che conoscano Vergarolla, i problemi del nostro confine orientale? La colpa è anche della classe dirigente che ha drasticamente ridimensionato l’insegnamento della storia e della geografia». «Abbiamo cercato – ha detto Dorigo – di portare l’attenzione dei nostri reggitori in Parlamento su questi problemi perché si rendano conto dopo 70 anni di quella che è la storia italiana. Alle lettere inviate al presidente della Repubblica sulla sciagura di Arsia il suo consigliere Arrigo Levi rispose di non sapere se ci si doveva rivolgere alla Repubblica di Slovenia o di Croazia, perché ignorava dove si trovasse Arsia». Molo Carbone e Vallelunga: incidenti o stragi? «Purtroppo – ha asserito Radivo – su mandanti e finalità non abbiamo prove certe, ma solo opinioni. La mia, discutibile al pari delle altre, è che le testimonianze, gli indizi storici e la logica ci indicano i servizi segreti militari jugoslavi. I titoisti infatti non considerarono finita la Seconda guerra mondiale ai primi di maggio del 1945. Continuarono a combatterla in altra forma anche dopo. Le più micidiali stragi di massa di prigionieri avvennero nel maggio-giugno ’45. La costruzione dello Stato comunista richiedeva infatti la violenza e il terrore. Nella sola Slovenia si calcolano circa 100.000 tra militari e civili anticomunisti sterminati in modo industriale. Le 600 fosse comuni finora individuate contengono centinaia o addirittura migliaia di resti umani. Dopo questa prima fase di repressione brutale, la guerra interna contro i residui anticomunisti ustascia, cetnici e domobranzi continua a più bassa intensità in varie parti della Jugoslavia (non in Istria). In maniera più diluita e mirata continuano anche gli atti ostili contro gli italiani filo-italiani. Sinistramente simili alla strage di Vergarolla appaiono due brutali mattanze compiute dagli jugoslavi nel maggio ’45 contro italiani. Nella prima decade una quarantina di soldati della Milizia Difesa Territoriale istriana e della X MAS vengono portati dalle Isole Brioni a Val de Rio, presso Lisignano, messi intorno a una mina subacquea arenata sulla spiaggia e trucidati facendola esplodere. I loro brandelli finiscono sugli alberi e le siepi vicine. Il 21 maggio circa 350 prigionieri italiani prelevati dalle carceri di Pola e poi imbarcati a Fasana sulla motocisterna “Lina Campanella� vengono condotti in un campo minato marino fra Albona e Cherso. Quanti riescono a salvarsi dall’esplosione e dall’inabissamento finendo in mare vengono maciullati dalle eliche o mitragliati dai titini. I pochi che raggiungono la riva vengono trasferiti in campi di concentramento o ai lavori forzati. Il 5 dicembre 1945 a Pola esplode il deposito di munizioni vicino al Molo Carbone: un morto, 15 feriti e tantissimi danni agli edifici circostanti. Poco tempo dopo, due individui sospetti provenienti dalla Zona B vengono trovati nel recinto del deposito di esplosivi del Forte San Giorgio con carte di identità non del tutto regolari e senza valida giustificazione. 12 gennaio 1946: scoppia la polveriera di Vallelunga; un morto, 40 feriti, gravi danni materiali e piccolo terremoto. Secondo i Carabinieri, le autorità britanniche riconoscono come responsabili e licenziano alcuni operai della Zona B. Il tenente colonnello Orpwood, responsabile del GMA per gli Affari civili a Pola, scrive che, se per Vergarolla vi erano “forti basi di sospetto� circa un sabotaggio, vi erano “delle possibilità� anche per Vallelunga. Mai tuttavia si indagò su questi due episodi». Un crescendo di violenze jugoslave «Dalla primavera 1946 – ha aggiunto Radivo – gli jugoslavi iniziano a sostenere la guerra civile in Grecia. E’ un crescendo che nella Venezia Giulia va di pari passo con un atteggiamento più baldanzoso e violento anche contro i militari anglo-americani, oltre che contro i filo-italiani, nell’ambito di un disegno annessionistico della Zona A. 30 giugno 1946: a Pieris militanti filo-titoisti interrompono la tappa del Giro d’Italia, sparano e feriscono un agente della Polizia Civile. 1° luglio: a Trieste una bomba ferisce 9 militari anglo-americani; elementi filo-jugoslavi sparano contro manifestanti filo-italiani, che rispondono lanciando bombe contro alcune sedi titoiste. 13 luglio: il Battaglione 808° informa il Comando alleato che “Giuseppe Banco, 34 anni, comunista, ha recentemente distribuito una grande quantità di armi ai suoi compagni, alla periferia di Pola�. Ricercato dalla polizia, scappa da Trieste in Zona B, dove inizia a lavorare per l’OZNA a Fasana agli ordini di “Timo�, alias Ivan Vitašović, già numero due dell’OZNA a Pola durante l’occupazione del maggio-giugno ’45. C’è un crescendo di violenza jugoslava verso i filo-italiani e gli anglo-americani che trova il suo acme il 18-19 agosto. A fine luglio soldati jugoslavi sconfinano in Zona A vicino a Gorizia uccidendo un soldato americano. Alcuni giorni dopo militari jugoslavi sparano contro soldati inglesi al posto di blocco di Prebenico. Il 31 luglio l’agenzia ANSA parla di un rastrellamento anglo-americano nella zona di Monfalcone per sventare un colpo di mano jugoslavo. Il 9 agosto soldati jugoslavi lanciano bombe a mano contro una manifestazione filo-italiana a Gorizia, mentre caccia jugoslavi mitragliano un aereo americano sconfinato nel loro spazio aereo costringendolo ad atterrare in un aeroporto dell’attuale Slovenia e sequestrandone l’equipaggio. L’11 agosto una bomba viene rinvenuta a Trieste sotto la tribuna della giuria di una gara internazionale di canottaggio, dopo che i filo-jugoslavi avevano dichiarato di voler boicottare qualsiasi manifestazione, anche sportiva, italiana. Il 19 agosto gli jugoslavi abbattono in volo un aereo americano che sta sorvolando il loro spazio aereo. I britannici accusano la Jugoslavia di fomentare disordini e proteste in Zona A anche “sostenendo attività criminali e terroristiche�. Il 22 agosto l’ambasciatore statunitense consegna un ultimatum a Tito, che però, timoroso del minacciato ricorso americano al Consiglio di Sicurezza dell’ONU per far cessare la sua prepotenza, ha appena liberato l’equipaggio del velivolo sequestrato e si scusa, come richiesto, per la morte degli aviatori e dei passeggeri dell’altro, sostenendo essersi trattato di un tragico equivoco e promette che non farà mai più sparare su aerei americani o inglesi. Il presidente Truman ritira l’ultimatum e il 27 agosto una guardia d’onore jugoslava consegna lungo la linea Morgan cinque bare contenenti le spoglie mortali delle vittime». Gli jugoslavi volevano invadere la Zona A «L’8 settembre 1946 – ha reso noto ancora Radivo – il Counter Intelligence Corps americano comunica che l’OZNA ha messo in piedi una sezione specializzata in sabotaggi: la Polizia di Sicurezza di Tito. Dal 9 settembre risultano attive sei squadre di agenti sabotatori jugoslavi a Trieste, Monfalcone, Grado, Cervignano, Latisana e Pordenone volte a “promuovere atti terroristici�. Una squadra avrebbe fatto saltare due dighe sull’Isonzo se fossero state assegnate all’Italia. Altri specialisti jugoslavi di demolizioni vengono segnalati a Trieste, Monfalcone e Gorizia. Si dà notizia di unità d’assalto dei servizi segreti militari jugoslavi in Istria, con base anche a Pola, incaricate di compiere attività terroristiche e di sabotaggio. Il 14 settembre una bomba esplode di notte a Trieste in un ricreatorio comunale distruggendone due piani e la facciata. Il 24 settembre vengono individuati a Trieste quattro sabotatori jugoslavi in possesso di esplosivo al tritolo. Il 25 settembre i servizi britannici comunicano che la Jugoslavia ha sguinzagliato “squadroni del terrore� in Zona A. Ai primi di ottobre vengono segnalati a Trieste una trentina di ex prigionieri tedeschi equipaggiati dagli jugoslavi per compiere sabotaggi e attentati in Zona A contro gli anglo-americani. Il 3 novembre 1946 viene assassinato l’autista del sindaco filo-italiano di Monfalcone. Nel settembre 1947 alla Prima Brigata Proletaria, ovvero i fedelissimi del regime, viene ordinato di entrare con la forza a Trieste. Nella notte fra il 15 e il 16 settembre l’operazione è avviata, ma all’ultimo momento Tito la blocca. Si verificano comunque scontri con gli anglo-americani. Gli jugoslavi occupano piccole sacche di territorio friulano e isontino assegnato all’Italia che si trascineranno fino al Trattato di Osimo. La strage di Vergarolla è dunque configurabile come uno dei tanti attentati jugoslavi in territorio “nemico�, tipici di quella lotta partigiana innovativa, graffiante e vincente in cui i rivoluzionari comunisti erano maestri». Inattendibili le piste diverse da quella jugoslava «Qualcuno – ha ricordato Radivo – ha sostenuto che mandanti e attentatori potrebbero essere stati golpisti italiani anticomunisti: servizi segreti deviati militari e civili, ex fascisti e monarchici che volevano ripristinare la monarchia a pochi mesi dalla vittoria referendaria della repubblica. Però non ci sono prove né episodi analoghi in quel periodo che possano deporre a favore di questa tesi. Chi la sostiene dovrebbe quantomeno portare delle argomentazioni. Si è detto: potrebbero essere stati gli anticomunisti jugoslavi, i Crociati (ustascia, cetnici e domobranzi) per far scoppiare la Terza guerra mondiale. Qui non solo non ci sono prove, ma manca la presenza di queste persone a Pola. Avevano un’organizzazione ramificata? Quanti erano? Al momento perciò questa sembra un’illazione. E’ stato il Governo De Gasperi per favorire l’esodo? Ma se aveva più volte cercato di dissuadere il CLN polese dal promuovere l’esodo e, malgrado ciò, entro il 28 luglio ’46 oltre 28.000 polesani avevano annunciato che sarebbero esodati in caso di annessione alla Jugoslavia! E poi il Governo italiano fu quello che si accollò gran parte delle spese per indennizzare i familiari delle vittime e i feriti. Chi altro avrebbe potuto ordire un attentato così ben congegnato e micidiale? Qualche scheggia impazzita locale? Difficile... Del resto a Vergarolla furono viste almeno due o tre persone sospette: quindi ci doveva essere un gruppo organizzato. E qual era il servizio segreto più presente, radicato e aggressivo a Pola in quel momento? Quello jugoslavo, non certo quello italiano e nemmeno quello britannico. Tantomeno quello americano. Che interesse avrebbero avuto i britannici o gli americani a un simile massacro? Sicuramente nessuno. Già il non aver provveduto a mettere in sicurezza le bombe suscitò una marea di proteste che a loro non giovò. E poi i britannici volevano liberarsi di Pola quanto prima. Avevano già deciso il 3 luglio insieme ad americani, sovietici e francesi che l’avrebbero ceduta alla Jugoslavia: non c’era bisogno di compiere gesti del genere. Tra i polesi filo-italiani la strage di Vergarolla produsse scoramento, disperazione, turbamento. La conseguenza fu la rinuncia a battersi, a resistere all’annessione. Tre giorni prima, il 15 agosto, all’Arena di Pola 20.000 persone avevano assistito a un concerto patriottico promosso dalla Lega Nazionale. Similmente alle gare del 18, era una manifestazione di italianità. Queste 20.000 persone non erano rassegnate. Si rendevano conto che la possibilità di restare in Italia era labile, ma forse quella di essere inclusi nel Territorio Libero di Trieste c’era ancora. Tant’è che il 28 agosto alla Commissione politico-territoriale per l’Italia della Conferenza della pace il Brasile e il Sudafrica presentarono due emendamenti per includere anche Parenzo, Rovigno e Pola nel TLT. Eppure dopo il 18 agosto i polesi filo-italiani non fecero più nulla. Rimasero atterriti, spaventati. A quel punto l’unica strada percorribile anche per i più incerti era l’esodo». Le tante Vergarolla di oggi Walter Macovaz, del direttivo del Circolo “Istria�, ha ricordato che il 20 marzo a Sana’a, capitale dello Yemen, sono morti in un attentato terroristico 130 persone. «Una bomba – ha detto – come quella di Vergarolla. Noi parliamo di 70 anni fa e non vediamo quello che sta succedendo adesso? I nostri politici dovrebbero dire: “Signori, sta succedendo la stessa cosa in questo momento!�. Quanti milioni di profughi come gli istriani si stanno muovendo in questo momento dalle proprie case a fare la stessa vita che abbiamo fatto noi?». Dorigo ha condiviso tali considerazioni. «Non possiamo rassegnarci – ha commentato – al fatto che queste cose continuino ad essere oggetto di cronaca quotidiana». Un esule ha riferito di aver conosciuto il dottor Geppino Micheletti medico condotto a Fasana e ne ha lodato l’impegno per i feriti. Radivo ha aggiunto che nello scoppio aveva perso i suoi due figlioletti, il fratello e la cognata. Continuò a lavorare all’ospedale civile come uno degli “indispensabili� fino al settembre 1947. Poi partì esule perché, ritenendo fossero stati gli jugoslavi a far esplodere le bombe, non voleva un giorno dover curare gli assassini dei suoi familiari e concittadini. Rimase fortemente turbato da quella vicenda e morì senza essere mai riuscito ad elaborare i suoi plurimi lutti.
  •                   01 2021 AIPI LCPE ODV

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