Il 10 febbraio 1947, a Parigi, l’Italia firmava un Trattato di Pace oltremodo amaro per gli esuli della Venezia Giulia e della Dalmazia. Con quella piccola traccia d’inchiostro vergata su un foglio di carta protocollare si decideva il destino di un popolo.
Buona parte di territorio del confine orientale, conquistato ventinove anni prima con il sacrificio di 650.000 morti, passava alla Jugoslavia. Così l’Italia pagava il debito di guerra per la sconfitta subita nella Seconda guerra mondiale e abbandonava al suo destino un popolo che l’aveva fortemente voluta, amata e rispettata. Ben 350.000 italiani strapparono le radici che li legavano alla loro terra e affrontarono un esodo di proporzioni bibliche.
Non fu un atto di coraggio a decidere la loro sorte, ma spinta che viene dalla disperazione. Il regime di terrore messo in atto da Tito per costringere l’etnia italiana ad abbandonare quelle terre e balcanizzarle ebbe la meglio sulla determinazione degli istriani e dei fiumani di rimanere. Nelle navi cariche di esuli che lasciavano mestamente le natie sponde non c’era spazio per la speranza, la croce che si portavano appresso i passeggeri era un bagaglio di tristi presagi per un avvenire incerto in grembo all’Italia creduta madre per lingua e tradizioni ma che accolse i sui figli con il cuore duro di una matrigna. Le leggi internazionali difendono i diritti degli uomini, stabilendo che nessun popolo può privare un altro popolo della terra dove è nato, dei beni acquisiti con il sacrificio di generazioni, né sottoporlo a vessazioni, persecuzioni, maltrattamenti, malvagità, umiliazioni e patimenti fisici e morali, fino a costringerlo alla fuga.
Tutto questo è avvenuto tra il 1943 e il 1954 in una terra che da sempre era stata latina e oggi è diventata balcanica. Il «Giorno del Ricordo» delle foibe e dell’esodo non va inteso come una rievocazione nostalgica; tantomeno come un percorso a ritroso per rievocare episodi drammatici di un popolo disperso. Un’etnia privata della terra non potrà mai più ricostituirsi per riaffermare la propria identità. Commemorare significa divulgare avvenimenti che la stragrande maggioranza degli italiani ignora, significa affermare il diritto di fare memoria presso le istituzioni, attraverso la stampa e la televisione, nelle scuole e nella vita pubblica, significa riportare la Storia nell’alveo della verità attraverso un esame critico degli avvenimenti. La conoscenza della verità deve diventare baluardo e monito contro il ripetersi delle atrocità del passato, ma in questo caso lo spazio pubblico che oggi onoriamo dev’essere inteso anche come un atto di giustizia per gli esuli istriani, fiumani e dalmati, vissuti nell’oblio e nell’indifferenza per cinquantasette anni. Un fatto storico di eccezionale importanza come il “crollo del muro di Berlino”, avvenuto nel 1989, smosse le coscienze degli italiani che presero atto dei crimini commessi dal comunismo.
Da allora non si poté più negare l’evidenza di crimini efferati, celata negli armadi della Storia ufficiale del Ventesimo secolo e posta in essere fino dalla fine della Seconda guerra mondiale. Tuttavia dovettero passare altri 15 anni prima d’infrangere il “silenzio di stato” e restituire dignità e memoria al popolo degli esuli giuliani e dalmati, concedendo loro il diritto di entrare nella Storia. Con il “Giorno del Ricordo” il Parlamento italiano ha storicizzato l’evento, tacitando la propria coscienza e ponendo fine alle amnesie dei governi che si erano succeduti nel dopoguerra. Per un subdolo gioco di strumentalizzazioni politiche, gli esuli sono stati abbandonati alla mercé di quanti non hanno mai perdonato loro di aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito. Il «silenzio di stato» è passato come un rullo compressore sui diritti e sul dolore di un popolo il quale, fuggendo dalla propria terra, ha perduto tutto. Se chiediamo alla gente per strada chi ha saldato il debito di guerra per la sconfitta dell’Italia, nessuno sa che a pagare il prezzo più alto sono stati gli esuli istriani, fiumani dalmati con le loro proprietà cedute alla Jugoslavia di Tito.
Lo Stato italiano si era impegnato a dare agli esuli un equo indennizzo per le proprietà perdute. Altrettanto aveva fatto Tito, dopo che con la firma del Trattato di pace di Parigi si era impegnato a non nazionalizzare le proprietà private degli esuli, cosa che invece aveva già fatto fin dal suo arrivo in Istria nel maggio 1945. Inadempienti sia l’Italia sia la Jugoslavia. La maggior parte dei libri di testo scolastici continua ad ignorare i massacri titini compiuti sulla popolazione inerme. È di questi giorni la notizia che il Vice-presidente della Regione Piemonte, tale Roberto Placido, ha acquistato con il denaro dei contribuenti 450 libri di Joze Pirjevec (storico sloveno) dal titolo “Foibe: una storia italiana”. L’intenzione è di distribuire il volume ai ragazzi delle scuole medie superiori. Quel volume ripresenta il più retrivo negazionismo, ovvero la pratica di disinformazione in uso al tempo della guerra fredda e in seguito sostituita dal più subdolo giustificazionismo. Invece di fare pulizia nel proprio passato ammettendo i propri crimini di guerra (…e l’Italia lo ha fatto ormai da tempo denunciando le gravi colpe commesse dal fascismo), la Slovenia, pur entrata nell’UE, non lo ha fatto e oggi è universalmente riconosciuta come il più gran cimitero dei senza nome.
Sul “Corriere della Sera” lo scrittore triestino e intellettuale di sinistra Claudio Magris ha scritto: «Alla fine della guerra, le forze di governo consideravano gli italiani infoibati come “morti scomodi” da confinare nell’oblio. Oggi gli stessi sono ricordati perché non possono più danneggiare le fazione politiche avverse». Le vittime innocenti precipitate nell’abisso – a guerra ormai finita – che doverosamente ricordiamo hanno il solo torto di essersi fatte ammazzare dai comunisti titini. Se a sopprimerle fossero stati i nazifascisti, oggi quei martiri sarebbero nell’olimpo degli eroi.
Piero Tarticchio